Cosmopolitics

Nei giorni del lutto per la strage in Texas arriva Jacinda a dire: vietare le armi d'assalto si può

Paola Peduzzi

La premier neozelandese è atterrata in America in un momento di lutto, portando l'esempio del proprio paese: noi ci siamo riusciti, serve volontà

Jacinda Ardern, premier neozelandese dai nervi saldi e il sorriso grande, sta facendo un tour americano – oggi va alla Casa Bianca – in cui condivide e racconta le idee che le sono venute in questi anni di crisi continue. La ricorderete nel video diventato famoso in cui lei sta parlando in diretta in televisione e c’è una scossa di terremoto piuttosto forte: lei sta ferma, si guarda intorno, aspetta che tutto smetta di tremare e poi sorride. L’abbiamo invidiata e ammirata, la Ardern, leader progressista e moderata in un mondo di estremi e urli, calma e rassicurante durante l’attentato alla moschea di Christchurch, durante la pandemia, durante i terremoti e i vulcani che eruttano, oggi anche durante la guerra. Abbiamo anche pensato che per lei fosse più facile essere così, come se l’abilità di un leader si misurasse da quanto è grande il popolo che deve guidare: la Nuova Zelanda sta ai confini del mondo circondata dal mare, ha cinque milioni di abitanti su un territorio enorme (17 abitanti per chilometro quadrato), è più semplice andare d’accordo se ci si incontra poco e potendo mantenere le distanze. Ma volontà e determinazione, cura e prospettiva ci sono o non ci sono: non dipendono da chi le ascolta, ma da chi ce le ha.

 

La Ardern è arrivata in America in un momento di lutto: la strage nella scuola di Uvalde, in Texas, ventuno vittime di cui diciannove bambini, ha riaperto ferite e dibattito sul controllo delle armi. Con un’aggravante: l’inazione della polizia, che ha aspettato a intervenire nonostante gli stessi studenti chiamassero il 911 e dicessero: ci ammazzeranno tutti. Perché non è intervenuta la polizia? Soltanto un calcolo sbagliato? O forse le ragioni sono più profonde, hanno a che a fare con il coraggio, con la solidarietà, con questo continuo sfilacciarsi della società divisa su tutto, a contendersi risorse scarse? Molti si stanno interrogando, con commenti invero dolorosi, sul non intervento della polizia, sull’errore che si somma a quello solito, inestirpabile che si presenta a ogni sparatoria e che va oltre al movente delle stragi: controllare la vendita delle armi, renderle meno accessibili, levarle dagli occhi per toglierle anche dai desideri. La domanda resterà, ed è questo il problema indicibile, ma se l’offerta si riduce, se acquistare un’arma d’assalto diventa complicato e anzi quasi impossibile, forse il contenimento può funzionare. 

 

La Ardern è arrivata in America a dire proprio questo: le armi d’assalto si possono vietare, ci abbiamo messo due mesi a farlo da noi. In America ci si metterebbe di più, per ragioni ovvie, ma non è il tempo a mancare, è la volontà. E la volontà manca perché manca il consenso, perché se parli di controllo delle armi sembra che vuoi andare contro lo spirito della frontiera americana, che vuoi negare, liberale da salotto, il diritto di ogni americano a difendersi. Ma non c’è bisogno di tirare in mezzo il Secondo emendamento, l’identità di un popolo o la sua storia: si può iniziare a vietare le armi d’assalto, che poi sono quelle che vengono utilizzate di più nelle stragi. Si può fare, anche senza vivere in Nuova Zelanda, anche senza la forza gentile di Jacinda Ardern.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi