Contro Mastro Ciliegia
L'ultima censura
Franceschini ha abolito la legge anacronistica che permetteva di bloccare l'uscita dei film in sala o di tagliuzzarli in base a valutazioni morali o politiche. Evviva. Anche se il "comune senso del pudore" non esiste più da un pezzo e ora la censura pol. corr. registi e produttori se la fanno da soli
Con quella sua flemma circospetta, con quella sua ironia sottile come una nebbiolina ferrarese, chissà se Dario Franceschini si è accorto dell’ironia implicita nel suo ultimo provvedimento: ha abolito la censura per i film, nel bel mezzo di un anno in cui i cinema sono chiusi e sprangati e ancora non si vede, oltre la nebbia, quando e quanti potranno riaprire. Ma sarà quando sarà, gli italiani potranno finalmente andarci senza più timore che Ultimo tango gli venga ritirato da sotto il naso, o che qualche scena o qualche bacio sia stato sforbiciato, come ai vecchi tempi di Andreotti.
Il ministro della Cultura ha firmato oggi il decreto che abolisce la censura per i film, che dal 1962, con varie modifiche, dovevano ottenere un nulla osta vincolante. D’ora in poi, ci sarà invece una Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche, che con un nuovo “sistema di classificazione” (siamo pur sempre nell’età della docimologia) valuterà i film: ma non esisterà più il divieto assoluto di uscita e nemmeno la possibilità di imporre tagli o modifiche preventivi. Ironia a parte, è ovviamente una buona notizia. Anche se la nascita di una commissione composta da quarantanove esperti, chiamati a valutare l’impatto morale delle pellicole, dalla tutela dei minori alla difesa degli animali, in un mondo in cui “il comune senso del pudore” non esiste più dal tempo dei pretori d’assalto ma in compenso Aurora Ramazzotti chiede l’istituzione del reato di fischio alle ragazze, lascia un po’ come gli artisti di Alexander Kluge sotto la tenda del circo: perplessi.
Chiaro che superare “definitivamente quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo stato di intervenire sulla libertà degli artisti” sia sacrosanto. Anche se le unghie dei censori avevano perso il graffio da qualche decennio. L’istituto della censura, dal Dopoguerra agli anni Settanta, oltre a colpire o tagliuzzare opere di valore come Rocco e i suoi fratelli o Teorema, è stato più che altro un termometro di sensibilità (o insensibilità) sociale e politica. Prima di passare a impegni più seri, Giulio Andreotti, grand commis del cinema della Ricostruzione, ne fu interprete raffinato, in un’epoca in cui era costretto a equilibrismi impossibili tra le pressioni dei parroci che gestivano un terzo dei cinema, i film irriverenti di Totò (tipo Totò e i re di Roma, 1952) e grane diplomaticamente più sottili: come quando si trovò alle prese con una battuta strepitosa di Joan Collins nella Congiuntura di Ettore Scola: “Non sono mai stata baciata da uno che poteva diventare Papa”.
Il rapporto tra la laicità e una nazione ancora profondamente cattolica, sì. Ma oggi che persino Lux Vide infila un bacio omoerotico ma casto nelle prime serate di Rai1, l’esistenza di un pur residuale apparato censorio è un puro anacronismo. Soprattutto, si sono ribaltati completamente i meccanismi e i ruoli, oltre alla scala di valori. Se prima i tabù erano Dio, sesso e patria, oggi è Disney stessa che censura le sue passate produzioni risciacquandole nel pol. corr.; sono i produttori delle serie di target internazionale a tarare le storie su una sorta di codice comune fondato sui valori dominanti. Lo spazio del non dicibile sta dietro la macchina da presa, molto più che tra le lame delle forbici sulla scrivania di qualche funzionario ossessivo. E per il resto, basta la mannaia preventiva dei social. Quella di Franceschini è una riforma di buon senso, non proprio una rivoluzione; ma tanto nemmeno nei cinema in piazza di Tornatore nessuno fischia più alle maggiorate sullo schermo.
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