L’8, il 9 e il 10 aprile “Scarface” torna al cinema in 4K, in occasione dei 40 anni dall’uscita. Lo distribuisce, in Italia, Lucky Red 

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Tony Montana era un coatto in anticipo sui tempi

Andrea Minuz

Per qualche giorno torna in sala "Scarface" di Brian De Palma, l’anti padrino che festeggia i suoi primi quarant'anni. La sua estetica sfrenata e kitsch ha fatto scuola anche fra i veri boss

Torna al cinema per qualche giorno, distribuito da Lucky Red, “Scarface” di Brian De Palma. Fresco, ripulito, restaurato in 4k giusto in tempo per festeggiare i suoi primi quarant’anni (usciva nel dicembre del 1983, da noi arrivò alla fine di febbraio del ‘84, col primo governo Craxi e Al Bano e Romina che trionfavano a Sanremo con “Ci sarà”). I fan delle serie Netflix, come “Narcos” o “Griselda” (uno “Scarface” per le femmine) potranno farsi un’idea di come e quanto l’immaginario della criminalità latinoamericana, i cartelli messicani, l’epopea del narcotraffico, l’universo espanso di “Gomorra” e i suoi derivati scaturiscano tutti da qui. Quarant’anni dopo non si può parlare del film “Scarface” senza passare dal “fenomeno Scarface”.
 

Per esempio, Tony Montana/Al Pacino in completo bianco col suo grugno appiccicato sopra scatole di sigari, sandali hawaiani, t-shirt, felpe, tappeti, accappatoi, scatole di frollini gluten free, oppure cocktail, sandwich, pizzerie, ristoranti “Tony Montana” e anche resort nascosti in Brasile (pousada “Tony Montana”, sull’Ilha Grande, di fronte alla spiaggia di Praia de Araçatiba), e naturalmente Tony Montana pupazzetto in scala con mitra spianato o nano da giardino con la scritta “Say hello to my little friend!” (per non dire dei meme con pizza e bomboloni al posto delle montagne di coca, e altre cose così).
 

È fin troppo notorio, poi, quanto “Scarface” sia ormai uno “stile”, una tendenza, un gusto anzitutto architettonico. Fonte di ispirazione per residenze sfrenatamente kitsch di boss e grandi narcotrafficanti. Mausolei del trash, come la villa di Domenico Alvaro, detto “Micu Scagghiuni”, incastonata negli impervi uliveti dell’Aspromonte: facciata gialla, colonnato in stile colonico, gran patio messicano, scalone di marmo rosa, portone di cristallo (un regalo del boss al figlio Antonio, sequestrata però dalla guardia di Finanza poco prima della fine dei lavori, senza superbonus). Ville ultracafonal, come la residenza di Walter Schiavone, fratello di Sandokan appena pentito, detta anche “Hollywood” o “Villa Scarface”, appunto, un calco del villone di Tony Montana, come un pezzo di Miami scaraventato a Casal di Principe: colonne romane, scalinate elicoidali che si snodano su tre piani, travertino bianco lucido ovunque, vasca da bagno, trono in oro, che però ormai non si sa se fa più “Scarface” o “Gf” e “Uomini e donne”. Col cambio generazionale, il nuovo gusto camorrista rivela influenze più pretenziose: nella villa di Nicola Schiavone, nipote di Walter, figlio di Sandokan, ecco il demone del design, poltrone Frau, parquet in radica, quadri astratti alle pareti, un po’ di Bauhaus a mano armata. Anche la celebre foto di Maradona sbracato nella vasca a forma di conchiglia coi boss di Forcella Carmine e Salvatore Giuliano, tutti e tre così latinos e con la pupilla dilatata, sembra uscita da “Scarface”.
 

Si dice insomma “alla Scarface” per indicare un trash diffuso, interclassista, trasversale. Non solo gli interni di “Gomorra”, riproduzione filologica di ville sequestrate ricolme di consolle Luigi XV e jacuzzi d’oro, ma una generale idea pacchiana della vita e del lusso. Un nuovo stile dominante e internazionale, dai castelletti sudamericani dei boss ai salotti della Trump Tower, dalle giraffe del Twiga ai salon de coiffeur di “Federico Fashion Style”, dai ristorantoni sul lungomare arredati in “bianco Gomorra” con tovaglie a strascico agli ambienti “Maison du Monde”, versione un po’ “Scarface” di Ikea: divanetti dorati, specchi rococò, tutto uno jungle-style diffuso con giaguari, scimmie, tigri e pappagalloni di ceramica sparpagliati sopra i mobili. Come direbbe Labranca: Tony Montana era un coatto. E in anticipo sui tempi.
 

Quando uscì al cinema niente lasciava presagire il mito che sarebbe diventato poi. Nel 1983 il box-office premiava altri titoli. Il grosso del pubblico era sintonizzato su storie più edificanti. Ai primi posti in classifica ci sono “Il ritorno dello Jedi”, “Flashdance”, “Una poltrona per due”, “Tootsie”. Dopo l’exploit del “Padrino” il gangster movie non tirava più. Gli anni Ottanta di Lucas e Spielberg, delle commedie à la Frank Capra, dei film sentimentali come “Voglia di tenerezza” promuovevano un’immagine rassicurante di Hollywood, dopo il turbinio della controcultura e la depressione della new Hollywood anni Settanta. “Scarface” era un film costruito intorno alla performance di Al Pacino, ormai una delle grandi star di Hollywood, e con un passato nobile alle spalle (lo “Scarface” di Howard Hawks del 1932). Ma l’accoglienza della critica fu tiepida. In mezzo ai film di quell’anno Tony Montana stonava. L’anteprima newyorchese non andò granché bene. Dustin Hoffman fu beccato tra le prime file che dormiva. Lucille Ball disse di detestarlo per la violenza eccessiva. Kurt Vonnegut uscì dal cinema dopo la scena splatter della motosega con cui i colombiani fanno a pezzi l’amico di Tony Montana, all’inizio del film. Piacque però a Eddie Murphy e a Cher (“un ottimo esempio di come il sogno americano possa andare a puttane”).
 

Quella sera Pacino era di scena a Broadway con “American Buffalo” di Mamet, arrivò verso la fine della proiezione, giusto in tempo per gli applausi. Il verdetto era unanime: grande prova d’attore, ma film troppo violento e col più alto numero di “fuck” mai pronunciati in un film. “182 in due ore”, disse Joan Collins “sono più di quanti se ne ricevano in una vita intera” (il numero ispirerà poi anche il nome della band Blink-182). Non andò molto meglio dalle nostre parti, dove al box-office furoreggiava “La chiave” di Tinto Brass con Stefania Sandrelli (secondo dietro “Flashdance”). “Risultato di molto inferiore alle attese”, scriveva “l’Unità”. “Scarface” poi di fatto non andò così male (era costato venticinque milioni di dollari, ne incassò quasi settanta).
 

Ma il mito “Scarface” sarebbe venuto molto dopo. Grazie anche agli endorsement del mondo criminale, coi boss di tutto il mondo che adoravano le imprese, la sbruffonaggine e l’interior design di Tony Montana e la sua villa-fortilizio. “Scarface non fu capito”, dice Al Pacino, “per quegli anni era quasi un film underground, e i critici non capivano gli eccessi, le esagerazioni di quel personaggio; Tony Montana è un personaggio schematico a due dimensioni, non c’è molto altro che quello che vedi e io volevo farlo proprio così”. Anche se l’idea del film è di Al Pacino, che alla fine degli anni Settanta resta folgorato da una proiezione di “Scarface” di Howard Hawks e progetta subito un remake col produttore Martin Bregman, dobbiamo a Sidney Lumet l’intuizione di spostarlo dalla mafia italoamericana dell’originale al mondo degli esuli cubani che approdavano nelle coste della Florida, col grande esodo del 1980, dunque dalla Chicago di Al Capone a Miami beach. Il film si apre con immagini di repertorio molto attuali: i barconi in mare zeppi di profughi, i militari americani al confine, le urla “libertad! libertad!”.
 

C’è anche Fidel Castro che parla sopra la musica elettronica di Giorgio Moroder (Castro approfittò dell’esodo, che ufficialmente doveva servire a riunire i cubani coi loro parenti americani, per svuotare le carceri di Cuba; iniziarono complicate trattative con gli Stati Uniti per rimpatriare i criminali, senza grande successo, anche perché come dice Tony Montana ai poliziotti americani che vogliono sbatterlo in carcere appena sceso dal barcone, “non potete farmi nulla che Castro non mi abbia fatto già”). La sceneggiatura di questo nuovo “Scarface” latino la scrisse Oliver Stone che in quel momento se la passava male. Aveva alle spalle un gran flop (“La mano”, sua seconda regia) e parecchi problemi di coca. Non gli parve vero gettarsi nei bassifondi di Miami per un’“inchiesta sul campo”. Stone dirà che fu grazie a “Scarface” che riuscì a smettere con la cocaina, portando insomma alle estreme conseguenze, cioè fino alla nausea la sua passione del periodo, anche se l’idea, più volte sostenuta da Stone, che “Scarface” sia un grande monito contro la droga e i suoi eccessi, tipo spot del Ministero, ci lascia un po’ perplessi.
 

Il film passò nel frattempo da Lumet a Brian De Palma che per girare “Scarface” mollò “Flashdance”. E anche se è un progetto cucito su misura per Pacino, “Scarface” è De Palma in purezza: kitsch, sfrontato, eccessivo, con molto sangue, come quello che scorre a fiotti nel finale di “Carrie”. In mano a De Palma, “Scarface” diventa anzitutto una grande celebrazione della Miami anni Ottanta, città simbolo di quel decennio. Miami con la sua art déco tropical che si mescolava ai neon rosa, fucsia, celesti, ai boulevards di palme, ai Mai-Tai serviti nell’ananas a bordo piscina, con spiagge a perdita d’occhio, Ferrari bianche, villoni sull’oceano, e naturalmente tanta, tantissima coca. La “yeyo” come la chiama Tony Montana nel film.
 

Miami beach è un pezzo decisivo degli anni Ottanta. C’era la Milano da bere e la Miami da pippare. Scaturisce come una costola di “Scarface” anche il mito televisivo di “Miami Vice”, telefilm con Don Johnson abbronzatissimo in completi griffati (e bianchi), che arriva giusto un anno dopo il film di De Palma e capitalizza il nuovo immaginario high-glam della città. Nella puntata pilota si vedeva anche la sontuosa villa di Gianni Versace in Ocean Drive. Miami, infatti, anche come grande capitale queer, molto attiva nei diritti sin dagli anni Settanta, e oggi elencata come “Top Municipality per l’uguaglianza Lgbtq+”. Però come la via Veneto di “La dolce vita” o l’Overlook Hotel di “Shining”, la Miami di “Scarface” non esiste. Il film è stato in gran parte girato tra Hollywood e Santa Barbara. A Miami De Palma girò giusto qualche esterno. I cubani esuli non volevano che passasse l’idea di una città governata dalla malavita, o che il loro anticastrismo fosse solo un paravento per imprese criminali (proprio come lo “Scarface” di Howard Hawks fece arrabbiare gli italiani e Mussolini, che bloccherà il film).
 

Misero su molte proteste e alla fine fecero sloggiare la produzione. Si ripiegò a Santa Barbara e negli Studios. Quando uscì al cinema, “Scarface” fu visto da molti critici come un reboot del “Padrino”, coi cubani al posto degli italiani, e Al Pacino a garantire il gioco di specchi tra i due film (“Il Padrino parte III”, lo definì sprezzante l’Unità). Non potevano sbagliarsi di più. Il film di Brian De Palma ribalta da cima a fondo il paradigma di Coppola. È un film che non ha nulla a che fare con la mafia. Se pensate al “Padrino” vi viene in mente il buio. L’oscurità di quella prima scena, “I believe in America”, come in un confessionale. Se pensate a “Scarface” ecco un’esplosione di colori pastello, camicie hawaiane, azzurrità, palme, piscine. “Scarface” è molto più cafone del “Padrino”, ma anche più instagrammabile. Per esempio, tutti abbiamo negli occhi una meravigliosa Michelle Pfeiffer, Elvira Hancock nel film, la donna per cui Tony Montana perde la testa. Lei è la concrezione del suo sogno americano: eterea, filiforme, con iconico caschetto bombato e biondissimo. Nel film gira sempre in nude-look, con vestiti-vestaglie di seta, abiti di raso, sguardo sprezzante, da stronza algida e inarrivabile. Molto citata oggi su Instagram e TikTok. Mentre non troverete un outfit ispirato che so a Carmela Corleone del “Padrino”.
 

Quando Brian De Palma vide le prime prove della Universal per il poster di “Scarface” cambiò subito il completo scuro di Pacino con un vestito bianchissimo, più da latino o da Jep Gambardella che da mafioso. “Il padrino” mette in scena un mondo arcaico, diffidente verso l’America, mentre “Scarface” è l’esaltazione pacchiana del sogno americano più sfrenato, materialista, e anche anticomunista. Tony Montana è un eroe tragico e solitario, il suo destino è segnato sin dall’inizio. Non c’è una struttura capillare, una famiglia, una gerarchia, un codice d’onore. Tony Montana crede solo nei soldi e nel potere, e nella via più breve per ottenerli. Nel “Padrino” risuona la saudade della musica di Nino Rota, in “Scarface” i synth, l’elettronica, le musiche caraibiche di Giorgio Moroder. Con “Scarface” il mafia-movie virava dunque sul cafonal e nulla sarebbe stato più come prima (vedi per esempio i tremendi completi colorati di De Niro in “Casinò”). Tutto in “Scarface” è eccessivo, volutamente eccessivo: candelabri d’oro, specchi, rifiniture stile impero, il completo bianchissimo di Tony Montana, il trono, la Cadillac con interni zebrati. Eccessivo anche quel mitra M16, più grande di Pacino. “Scarface” come una versione criminale del “Boss delle cerimonie” (ma anche il contrario, col “Boss delle cerimonie” che potrebbe essere un reboot di “Scarface”).
 

Del resto, anche il mondo criminale è rigidamente diviso tra fan di “Scarface” (in genere latinos, camorristi, “Gomorra” e affini) e fan del “Padrino” (più cupi, austeri, misurati, rifugiati non in villoni faraonici ma in tuguri e campagne sperdute). Matteo Messina Denaro, si sa, aveva in camera il poster del film di Coppola, ovvio.

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