La petite

Mariarosa Mancuso

La recensione del film di Guillaume Nicloux, con Fabrice Luchini, Mara Taquin, Maud Wyler, Juliette Metten, Veerle Baetens

Due filoni si intrecciano. Il primo riguarda la recitazione. Fabrice Luchini (che di solito nei film è di malumore, rigido, o borbotta) nella parte del sessantenne depresso che, dopo la morte del figlio e del suo compagno in un incidente aereo, cerca la madre surrogata che sta per partorire la creatura. E si commuove. Il secondo sociale. Se due maschi francesi trovano una madre surrogata in Belgio, dove la pratica è legale solo se fornita a titolo gratuito, e si accordano per 60 mila euro, può il genitore di uno di loro subentrare, evitando che la neonata sia data in adozione? I consuoceri non ne voglio sapere, preferirebbero battersi per un risarcimento dalla compagnia aerea. Fabrice Luchini, restauratore di mobili finora triste e solitario, trova nella bambina che nascerà la sua ragione di vita. Il film è sceneggiato e girato con un certo garbo, non esente da lentezze. C’è anche la madre surrogata, da convincere. Che ha già una figlia, si è prestata per soldi, fuma, beve, prende medicine, e trova molto importuno l’intervento del futuro nonno – padre del padre biologico, potrebbe anche superare la prova del DNA. Il nonno aspirante padre compra una vecchia culla, che si dice appartenuta a Klimt. L’insistenza sul riciclo, sul corpo del figlio scomparso in mare nell’incidente, e l’idea che qualche cellula sia sopravvissuta nella neonata che nascerà è un teorema costruito per commuovere. Se non ci cascate, risulta un po’ fastidioso.