“Interdit aux chiens e aux italiens”, una storia dolce-amara di emigrazione e discriminazione, in plastilina

I ricordi familiari nel film di Alain Ughetto, vicenda intima e collettiva fatta di valigie di cartone, picconi, fame ed esplosivi. Scordatevi l'eleganza di “Fantastic Mr. Fox”. Qui l'estetica ricorda piuttosto “La mia vita da zucchina” di Claude Barras

Mariarosa Mancuso

“Mettono il cartello per evitare che i cani mordano gli italiani”. Il genitore emigrato negli anni 20 in Francia dalle montagne piemontesi spiega al figliolo la scritta fuori da un caffè: “Interdit aux chiens e aux italiens”. E’ il titolo del film che il francese Alain Ughetto ha scritto e diretto – e molto di più: non ci sono attori ma pupazzetti di plastilina mossi con pazienza a ogni fotogramma, vincendo il Premio della Giuria al Festival di Annecy (che dal 1960 celebra i film che utilizzano la sfiancante, e costosa, tecnica).
   

Il film è uscito in Francia a fine gennaio, dopo un passaggio al Festival di Torino e uno al Festival di Locarno, Svizzera. Dove gli hanno cambiato il titolo, diventato “Manodopera”: “Volevamo braccia, sono arrivati uomini”, disse lo scrittore svizzero Max Frisch negli anni 70 del Novecento, frase poco apprezzata dai compatrioti. Qualche scritta anti emigrati fu registrata anche a Torino, se non era fuori dai bar riguardava le case da affittare ai meridionali.
    

Nelle interviste Alain Ughetto si porta dietro i pupazzi in plastilina (o altra gomma morbida e cedevole) che appaiono sullo schermo come nonno Luigi e nonna Cesira. Secondo i ricordi familiari, si erano conosciuti quando il nonno lavorava al traforo del Sempione. La sposina era stata presentata alla famiglia lontana dopo la nascita del primo rampollo (nel film sono 5 e si dividono per cena una patata, neanche tanto grande). Nella versione originale nonna Cesira è doppiata dall’attrice Ariane Ascaride, nata a Marsiglia e nipote di immigrati napoletani. La voce narrante maschile appartiene al regista medesimo, che ha arruolato per le musiche Nicola Piovani
   

Si parte per fame, e per fare un po’ fortuna – bastava poco, considerate le condizioni di partenza. Valigie di cartone legate con lo spago, piccone che può sempre servire, pezzi di pelliccia legati ai piedi. I tre prendono il cammino della montagna, arrivano alla frontiera e si trovano davanti a un muro bello alto. Gli altoparlanti diffondono un discorso di Mussolini, è il momento buono per agire. Un po’ di esplosivo, forse rubato forse portato da casa, e il muro viene giù, aprendo le porte della terra promessa. Che non era tanto disposta ad accoglierli. 
      

Faranno gli spazzacamini, gli straccivendoli, i muratori, andranno a lavorare in miniera. “Hanno di buono che sono privi di dignità”, legge sul giornale nonna Cesira, i capelli a crocchia e lo spillone per tenerli fermi. “Beati quelli che hanno pane e polenta”, dicevano al paese. E il regista ricorda la polenta, ancora commosso. La nonna è più concreta e sincera: “Fils de pute de macaroni”, sono queste le prime parole che abbiamo imparato in francese.
       

Il lavoro di produzione – si fa per dire, basta sbagliare la posizione di un personaggio per rovinare la scena, i pupazzi hanno gli occhi grandi ma da soli non riescono a fare tutto – è stato fatto in Italia, dalla società piemontese GraffitiDoc. Il regista non finge di non esserci, né di raccontare la storia di qualcun altro. Interviene, ogni tanto, facendosi vedere in scena: sposta un dettaglio o un oggetto, un carretto o un cappello. 
   

Per gli sfondi, pietra e carbone, e una bella neve che pare vera, cosa che non succede spesso neanche nei film girati in esterni. Gli abiti sono lisi e sbiaditi, come devono essere. Scordatevi l’eleganza di “Fantastic Mr. Fox” di Wes Anderson. Qui l’estetica ricorda piuttosto “La mia vita da zucchina” di Claude Barras, storia di un orfanello che vuol farsi chiamare Courgette (il nome vero, e detestabile, sarebbe Icaro). Non portateci i bambini, i genitori trovano Zucchina troppo triste.