Fabio De Luigi e Virginia Raffaele

Il nuovo film di Fabio De Luigi

Sale piene per “Tre di troppo”. Della commedia non possiamo fare a meno

Andrea Minuz

Il pubblico raramente si sbaglia: gli basta farsi una risata con facili cliché. Forse oltre a essere malinconici gli italiani hanno finito anche le serie su Netflix

Com’era la storia che in Italia si fanno troppe commedie? Che il pubblico non ne può più? Che se devo vedermi “la solita commedia italiana” tanto vale me ne stia a casa a fare scrolling su Netflix? A due giorni dall’uscita in sala, Tre di troppo, con Fabio De Luigi e Virginia Raffaele, è subito secondo al box-office, dietro Avatar 2, che ovviamente fa parte di un’altra galassia. E’ anche il terzo indizio che fa una prova: prima i sei milioni di La stranezza, di Ficarra e Picone, commedia pirandelliana, pensosa, stralunata. Poi Aldo, Giovanni e Giacomo che hanno sbancato a Natale e dintorni con Il grande giorno. Ora Fabio De Luigi, con una media-copia che tiene testa a James Cameron. Le commedie sono tutte uguali, ma quelle scritte bene sono più uguali di altre. Quando funzionano si tirano dietro anche i film più difficili, come nella nostra Golden Age, quando grazie ai film di Totò potevamo produrre Fellini e Antonioni. Per esempio, Le otto montagne, premio Strega diretto da due registi belgi, titolo assai poco natalizio, va incredibilmente bene in sala grazie al passaparola, alla voglia di tornare al cinema, e alla coppia Borghi-Marinelli sfruttata molto bene, qui in versione into the wild, uno con barba, l’altro senza. 

A differenza dei critici, il pubblico si sbaglia raramente. Se è vero che la formula perfetta al cinema non esiste, è anche vero che i film non funzionano mai per caso. Il grande giorno non punta solo su Aldo, Giovanni e Giacomo, sfrutta molto bene i caratteristi intorno, come non si vedeva fare da tempo nei nostri film, e piazza la commedia natalizia sul ramo del Lago di Como, lontano dalle stereotipie di Roma-Milano-Napoli. Dietro l’apparenza di una commedia leggera, anzi leggerissima, Fabio De Luigi prende un tema scivoloso e tocca un nervo scoperto che ci riguarda tutti: l’edonismo irrinunciabile di chi non vuole figli, l’inadeguatezza più o meno sistematica di chi li fa. Lui e Virginia Raffaele conducono un’esistenza spensierata: sono in forma, vanno a ballare, a cena fuori, agli aperitivi, hanno un’ottima vita sessuale, disprezzano i loro amici con prole, depressi, nevrotici, precocemente invecchiati. Poi l’anatema, come in un Macbeth genitoriale. Eccoli anche loro con tre figli dentro al letto. E’ la fine. Una trovata semplice, un cliché della commedia da Frank Capra a Checco Zalone. E come in tutte le commedie ben congegnate ci si guarda bene dal prendere posizione.

Il film non si schiera sul tema figli sì/no (per quello ci sono già le risse sui social). Si limita a farci ridere dei nostri cliché, quelli genitoriali, quelli anti-genitoriali. Pensa al ritmo, all’azione, alla scrittura, non “al messaggio” (De Luigi è un barbiere-hipster, ha la barba curata, massaggiata, prebalsamata: non ci viene in mente niente di più distante dall’essere neo-padri che trovare tempo per frizioni e gel riflettenti, e insieme al ballo, al sesso, alle cene, coi figli salta anche la barba). Soprattutto, s’inventa una nuova coppia destinata, ci auguriamo, a un futuro radioso. Perché a Fabio De Luigi, uno dei più formidabili “everyday man” del cinema italiano, è sempre mancata una vera spalla. Ci era andato vicino in 10 giorni senza mamma (con Valentina Lodovini). Ma con Virginia Raffale trova l’intesa ideale. Tempi comici perfetti, alchimia, complicità immediata. Una coppia magnifica, da slapstick comedy americana. 

Non c’è dubbio che sia presto per capire se il pubblico si è riconciliato con la sala. Siamo pur sempre sotto l’effetto falsato delle feste. Quel che è sicuro però è che il cinema italiano non può prescindere dalla commedia. Nemmeno oggi che la concorrenza con la cronaca e la politica si è fatta spietata (il vero cinepanettone di quest’anno era Giuseppe Conte con Olivia Paladino a Cortina). E poi lo dice anche il Censis e lo ribadisce Nando Pagnoncelli sul Corriere: il sentimento che più rappresenta gli italiani è la “malinconia” (“è la malinconia a definire oggi il carattere degli italiani”, diceva il rapporto in un passo a là Emil Cioran, “malinconia intesa come sentimento proprio del nichilismo dei nostri tempi, corrispondente alla coscienza della fine del dominio onnipotente dell’Io”). Forse oltre al dominio dell’Io abbiamo finito anche le serie su Netflix, e le piattaforme iniziano un po’ a stancarci, come i social. Ridere insieme a degli sconosciuti al cinema può essere un ottimo antidoto alla malinconia.