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Le migliori serie tv per un inverno sul piccolo schermo

Mariarosa Mancuso

Anche nell’età del riciclo, con soggetti che partono da film, da saggi e da podcast, di serie tv ne rimangono abbastanza da perderci il sonno. Commedie, drammi, thriller, storie vere. Una guida, per chi non si fida dei consigli dell’algoritmo

Le serie uscite nel 2022 – quelle che abbiamo visto e quelle che mai vedremo, diceva Giorgio Manganelli che il critico deve essere “impervio a taluni valori perché altri gli si svelino con chiarezza” – mostrano che siamo nell’età del riciclo. Film che diventano serie, saggi e articoli e podcast che diventano serie, remake e spin off che hanno fatto diventare “Star Wars” (nel 1977, un piccolo ma simpatico film con una principessa che non rimediava un principe, solo una medaglia) una cineteca di Babele più disordinata della biblioteca borgesiana. Vale la legge del riciclo per “Il Signore degli Anelli”, che dopo averci afflitto da lettori, e poi da spettatori al cinema, torna alla carica con la serie “Gli Anelli del Potere” (c’è altro in quell’universo dove i buoni sono biondi e i cattivi sono neri e sdentati?). Vale per “Game of Thrones” che ha generato un prequel con i dragoni. Vale per le storie stiracchiate oltre misura, quand’era chiaro a qualsiasi “script doctor” – i dottori che curano le sceneggiature zoppicanti, sovrappeso, messe insieme con pezzi di cadavere come la creatura di Frankenstein – che dopo una stagione o due al massimo si sarebbero aperti gli abissi dello sbadiglio.

 

Fanno caso a parte, ma solo un po’, le serie rompicapo come “Westworld” di Jonathan Nolan: il sottotitolo: “Dove tutto è concesso” si fa beffe dell’etica ma soprattutto delle regole narrative. Cancellata il mese scorso dopo quattro stagioni, non ne abbiamo sentito la mancanza. Resta “Severance” (o “Scissione”), la serie-incubo prodotta da Ben Stiller: gli impiegati della Lumon Industries sono sottoposti a una procedura che alza un muro neurologico tra ricordi professionali e personali. Per entrambe le serie, non esiste solo quel che noi semplici vediamo sullo schermo: i fan sono affascinati dalle ragnatele complottiste da loro stessi costruite, rivedendo più volte le puntate per “unire i puntini”.

 

 Educatori e psicologi hanno sottolineato alla cieca il valore educativo della serie, in nome dell’inclusione. Nessuna storia frivola ormai può restare tale, le nuove generazioni non hanno diritto ai fumetti

 

Ne rimangono abbastanza da perderci il sonno, anche se stanno facendosi largo le miniserie e le serie antologiche (nella prima Golden Age le stagioni duravano 24 puntate e oltre). Apple tv+ rende disponibili gli episodi a scadenza settimanale, e Netflix qualche mese fa stava sperimentando un palinsesto lineare. Vuol dire: ti metti davanti allo schermo e vedi quel che un altro ha deciso per te, un bel ritorno alla vecchia tv con i telefilm a ore fisse. Ne rimangono abbastanza per non avere voglia di seguire i consigli dell’algoritmo, che ci trova compatibili perfino con i western, genere sempre detestato. O con certe storie di donne sole che soffrono, fanno un lavoro miserabile, poi si vedono portare via il bambino, poi il marito torna a casa per picchiarle (non va meglio alle principesse, anche loro piangono).

 

Per l’anno a venire, prendere esempio da “I dimenticati” di Preston Sturges, 1941. Un regista di successo in tempo di guerra si vergogna a girare commedie. Vuole fare un film drammatico e impegnato. Si veste da barbone, per un incidente lo mettono in galera, e vede i compagni di sventura ridere felici guardando Topolino, proiezione speciale per i detenuti. Capisce la lezione e ricomincia con le commedie.

 

MERCOLEDÌ

di Tim Burton, con Jenna Ortega (Netflix)

Mai fidarsi delle ragazzine con le trecce. In un vecchio film intitolato “Il  giglio nero” una biondina adottata combina cose terribili (oggi non si potrebbe fare, forse neanche dire). I genitori della brunetta Mercoledì di cognome fanno Addams – scatta la musichetta della serie tv, se avete un’età ragguardevole. Oppure ci sono i film di Barry Sonnenfeld, con Mercoledì e il fratello Pugsley che per la recita scolastica mettono in scena uno Shakespeare sanguinario (corretto, all’epoca gli spettacoli rivali erano le pubbliche impiccagioni e i combattimenti degli orsi). Mamma Morticia taglia via i boccioli di rosa tenendo gambi e spine, abbraccia il consorte dicendo “mio caro, sono completamente infelice”. La serie di Tim Burton – venticinque anni fa per la tv nessun regista voleva lavorare, ora fanno a gara – manda Mercoledì in un collegio per ragazzini difficili chiamato “Nevermore” (“Mai più”, le parole che il corvo di Edgar Allan Poe ripete ossessivamente). Fa conoscenza con adolescenti dotati di “abilità particolari”, nel senso dei licantropi o dei vampiri. In una nobile gara, educatori e psicologi hanno sottolineato alla cieca il valore educativo della serie, in nome dell’inclusione. Nessuna storia frivola ormai può restare tale, le nuove generazioni non hanno diritto ai fumetti, ai libri, ai film che ci hanno diseducato. E però ci hanno insegnato a leggere e a scrivere, a capire l’ironia e satira, a distinguere il vero dal falso. Jenna Ortega è bravissima e neanche l’algoritmo è riuscito a piallare il black humour e le scene macabre.

 

THE BEAR

di Christopher Storer, con Jeremy Allen White (Apple TV+)

Al cinema abbiamo la cucina assassina (“The Menu”) e la cucina che riscatta gli immigrati (“Sì, chef! – La brigade”). Tocca a questa serie entrare nella vera e ruspante friggitoria di un paninaro a Chicago, sull’insegna: Italian Beef Sandwich. Ci finisce a lavorare un giovanotto abituato molto meglio, faceva lo chef in un celebre ristorante e andava in tv – la mutazione della televisione, in questo senso, è stata radicale: da finestra sul mondo a finestra sul vicino, poi finestra su piatti e pentole di chiunque. Carmen detto Carmy è lì per salvare la baracca dopo il suicidio del fratello Michael. Trova debiti, fornitori che voltano le spalle, il personale indisciplinato, il migliore amico di Michael che sperava di ereditare il locale, o almeno di continuare a dirigerlo. Manca la carne, e manca il pane, cotto nel forno che sembra andare in pezzi come tutto il resto. Non il momento ideale per accogliere e addestrare una nuova assistente. In strada sfilano urlando gli attivisti vegetariani mascherati da verdura. “Carmy” tiene duro, rifiuta di cedere agli spaghetti, mentre la frenesia aumenta assieme ai litigi. Gli attori sono bravi nelle scene d’insieme, in cucine come quelle non si fa che urtarsi e intralciarsi. E la regia (raramente accade in una serie) è adeguata alla storia che racconta. Mostra i pasticci culinari con contorno di adrenalina, e gli occhi azzurri – teneri, spalancati e stupefatti – di Jeremy Allen White che fa Carmy, e negli incubi ha un orso che lo attacca.

 

BLACK BIRD

di Dennis Lehane, con Paul Walter Hauser (Apple TV+)

Senza chiasso pubblicitario, né paginoni né recensioni liriche – mancava il risvolto sociale, femminista, fluido – una delle migliori serie del 2022. Solo sei episodi tesissimi, firmati da Dennis Lehane, un’autorità in materia: dal suo romanzo “La morte non dimentica” Clint Eastwood ha tratto “Mystic River”. Taron Egerton, campione sportivo durante il liceo e figlio di un poliziotto, spaccia tanta droga da vivere nel lusso, e da beccarsi dieci anni di carcere per reato federale. Niente condizionale né sconti di pena. Finché gli fanno una proposta: entrare in un carcere di massima sicurezza, conquistare la fiducia di un sospetto serial killer, farlo confessare e capire dove ha sepolto le ragazze uccise. L’unico modo per arrivare a una condanna: senza cadaveri il sospettato è solo colpevole di mitomania. Il faccia a faccia si regge sull’incredibile bravura dell’attore Paul Walter Hauser che cambia voce e aspetto: a volte sciocco e innocente, interessato solo alle rievocazioni storiche (per questo ha enormi basettoni del tipo chiamato “mutton  chops”), un attimo dopo furbissimo e crudele. Dove l’abbiamo già visto? In “Tonya" era l’amico del marito di Tonya Harding, la pattinatrice che azzoppò la rivale: si spaccia per agente dell’Fbi e chiedeva un riscatto dal telefono fisso di casa sua. In “Richard Jewell” di Clint Eastwood era il poliziotto che sventò un attentato alle Olimpiadi di Atlanta, e fu accusato di aver messo la bomba (aveva il profilo giusto, secondo l’Fbi).

 

SCHITT’$ CREEK

di Dan Levy, con Eugene Levy (Prime video, Infinity+)

Dal Canada. Paese su cui avevamo molti pregiudizi prima di leggere “La versione di Barney”: spassoso e definitivo romanzo di Mordecai Richler, uno che il suo destino di scrittore lo ha compiuto in età non verdissima. C’entra la grande tradizione dell’umorismo ebraico che arriva fino a Eugene Levy, il genitore con le sopracciglia a spazzola in “American Pie”, diretto da Paul Weitz (e del resto, pensateci: poteva un regista wasp immaginare una torta di mele tiepida da scoparsi?). Dan Levy è il figlio di Eugene, non sarebbe ebreo secondo le regole. Ma l’umorismo si impara in famiglia. “Shitt’s Creek” (il segno del dollaro è una battuta sulla battuta, che razza di nome è per un paese?) vinse 9 Emmy nel 2020 e da noi era una serie ignota – legalmente, poi si sa che esiste la pirateria. Dal luglio 2021 l’hanno scoperta anche i programmatori italiani (vi sarete accorti che i cataloghi visibili dall’Italia sono molto scarsi rispetto agli Usa). Trama: il miliardario Johnny Rose si ritrova al verde (evasione fiscale, par di capire). Con la moglie che recitava nel soap e due figli viziati va a vivere nel motel della squallida cittadina che un giorno per scherzo aveva comprato. Alla consorte Moira, per dire, tocca dormire nell’armadio a muro. Sono sei stagioni (ormai concluse). Da vedere senza l’ansia dei colpi di scena. Come “Seinfeld”: un episodio ogni tanto, e ogni volta lo stupore: sta parlando di noi, adesso. Anche se Jerry Seinfeld l’ha pensata e girata negli anni Novanta.

 

THE DROPOUT

di Elizabeth Meriwether, con Amanda Seyfried (Disney+)

La truffa è affare da donne, quando il livello è alto. Dopo “Inventing Anna” – la strepitosa carriera criminale di Anna Sorokin, rovinata nella serie Netflix da una giornalista non sveglissima che dovrebbe stare al posto dello spettatore, tipo Watson con Sherlock Holmes – ecco Elizabeth Holmes, eroina prima trionfante e poi tragica di “The Dropout”. All’origine degli otto episodi c’era un podcast, garanzia di buona scrittura perché non può contare su suggestive immagini a sostegno. Uno spezzone di testimonianza in tribunale, qualche scena di un documentario sulla megaditta Theranos (terapia e diagnosi, spiega la fondatrice) e torniamo alla scintilla originaria. “Voglio diventare miliardaria” dice la giovane Elizabeth, appena ammessa all’università (nel 10 per cento dei migliori studenti) e ancora sotto choc: il padre è stato travolto dal fallimento Enron, bisogna farsi aiutare dai parenti ricchi. La Theranos di Elizabeth Holmes vantava una tecnologia che avrebbe rivoluzionato le analisti del sangue, e di conseguenza le cure prestate dalla sanità americana e mondiale. Anche noi che per ipocondria evitiamo le pagine della salute abbiamo scorso articoli o ritratti della miracolosa ragazza che risanava con diagnosi precise e precoci, bastava una gocciolina. Nel 2015, Theranos era valutata da Forbes 9 miliardi di dollari, la fondatrice Elizabeth Holmes era la più giovane miliardaria – e self made woman – Usa. Il crollo fu disastroso, appena si cominciò a parlare di frode, l’accusa dice anche “associazione a delinquere”. La tecnologia era fallimentare, i risultati mostrati agli investitori del tutto fasulli.

 

WHITE LOTUS

di Mike White, con Jennifer Coolidge (su Sky e NOW)

Seconda stagione, all’hotel San Domenico di Taormina (spiagge e paesaggi e vicoli sono un patchwork siciliano). Con il morto, come il format della black comedy pretende: la prima stagione, in un resort delle Hawaii, cominciava con una bara imbarcata sull’aereo che riportava a casa i turisti. 

Qui una fanciulla va a nuotare, e dalle onde sbuca un cadavere. Forse neppure l’unico, veniamo subito a sapere. E’ forte il sospetto che lo showrunner Mike White abbia deciso di alzare la posta. Vedremo se funzionerà: per ora i nuovi ospiti non paiono tanto interessanti: una famiglia di italo-americani, coppie scoppiate, una Vespa che non può mancare, assieme al ricco e insistito repertorio canzonettistico italiano. Tre generazioni di maschi con F. Murray Abraham per capostipite vogliono ritrovare il paesello d’origine (e nel frattempo insidiare qualche bella fanciulla: in pole position due ragazze locali che poco vestite si aggirano nei saloni, qualcosa ne verrà fuori). Del vecchio cast sopravvive Jennifer Coolidge, ovvero Jenna: solitaria e infelice, viaggiava con le ceneri della madre. Prima di trovare un marito ricco al resort delle Hawaii: sbarcano a Taormina con un mostruoso set di valigie. Il problema della seconda stagione è l’Italia vista dagli americani,  e peggio ancora la Sicilia, carica di esotismo e di “colore locale”. Per noi ha sempre qualcosa di ridicolo, meglio recuperare la vecchia stagione. Se ne prepara una terza, comunque, in lussuosa località turistica ancora sconosciuta.

 

LANDSCAPERS - UN CRIMINE QUASI PERFETTO

di Will Sharpe (Sky e NOW)

L’Inghilterra delle casette tutte uguali, il riscaldamento che scatta a suon di monetine (la versione londinese è in “Mrs Harris va a Parigi”), vestaglie con scialletto, pantofole scalcagnate, tappezzerie in colori che furono vivaci e ora tendono al grigio giallognolo, centrini anche sul televisore, copri-teiera imbottito. Come Agatha Christie sapeva, non sono luoghi esenti da delitti. Ha scritto il copione Ed Sinclair, marito di Olivia Colman che si aggiudica il ruolo di Susan sposata con Christopher (il sempre magnifico spilungone David Thewlis visto nei film di Mike Leigh). Sono andati a vivere in Francia, sapendo poco la lingua e con una sola giacca per lui, che la consorte ossessivamente stira (magari c’è qualche lavoro in giro, non si può mai sapere). Passano il tempo guardando film, non frequentano nessuno, tanto protettivi l’uno verso l’altra da essere sospetti. Lo sono, in effetti, ma verranno scoperti a 15 anni dal delitto, colpa di una pensione incassata troppo a lungo. Il beneficiario – assassinato con la consorte – avrebbe dovuto compiere 100 anni e tutta l’Inghilterra era pronta a festeggiarlo. Rara mini-serie con delitto diretta da un regista che fa davvero il suo mestiere. Gli interrogatori di solito sono noiosi e monotoni, qui sono messi in scena con molta bravura. Si vedono i set, e anche i tecnici intorno. Magnifica la scena del ritorno dalla Francia, tutta Scotland Yard schierata sul molo per due vecchietti con i manifesti cinematografici sottobraccio. I veri coniugi Edwards. condannati a 20 anni, si sono sempre dichiarati innocenti.

 

BORIS 4

di Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico (Disney+)

Nessuno l’aspettava più, dopo la grande tristezza per la morte di Mattia Torre nel 2019. Aveva raccontato la sua malattia in “La linea verticale” appena l’anno prima, dimostrando la sua bravura di scrittore e sceneggiatore con il tono giusto, sempre. La terza stagione di “Boris” risaliva al 2010, con un film come extra-bonus. Ci voleva coraggio per ripartire, oggi. Quando Lillo Petrolo che fa le facce viene spacciato come il nuovo fenomeno della comicità (vabbè, “Posaman”, ma così mica migliora, e ci siamo tenuti a distanza di sicurezza dalla miniserie “Sono Lillo”, non siamo noi spettatori che dobbiamo vincere la gara a chi non ride mai). Circondata da un ambiente ostile, alla bravura e alla comicità, la quarta stagione di “Boris” non ha avuto gli applausi che meritava. A cominciare dal “non lo famo ma lo dimo” – basta che qualche personaggio lo racconti, non è necessario inquadrarlo – per cavarsela con le scene difficili e costose da girare. Il passaggio del Mar Rosso, per esempio. Si gira infatti un colossal biblico, e Corinna “la cagna maledetta” (più sussurrato del solito, non sono cose che si possono ripetere impunemente oggi) fa la madre di Gesù e pretende il trucco: “Va a un matrimonio a Cannes (così ha inteso “le nozze di Cana”) con la faccia acqua e sapone?”. Siamo su una Piattaforma – come Disney+ che con auto-ironia ospita la serie. I giovani registi sentono l’odore dei soldi e propongono copioni “vampiri contro gli studi di settore”. Solo l’algoritmo li potrà fermare, funziona meglio dell’aglio.

 

CABINET OF CURIOSITIES

di Guillermo del Toro, con Tim Blake Nelson (Netflix)

Il messicano lavora come una piccola azienda. Poco prima del “Pinocchio” ambientato nell’Italia fascista (film in stop motion, con il solito effetto: strepitose le creature di fantasia, meno interessanti gli umani come Geppetto, pare l’ubriacone di certi quadretti dozzinali) era arrivata su Netflix questa serie antologica. “Cabinet of Curiosities” evoca le Wunderkammer, raccolte seicentesche (e molto oltre) di monete, pietre rare, animali esotici, reperti archeologici, aggeggi e trappolette meccaniche. Guillermo del Toro aggiunge il tocco horror che gli è caro, anche casa sua ha parecchie stanze dedicate a ritratti di Edgar Allan Poe, creature di Frankenstein a grandezza naturale, altri reperti e disegni dai film che hanno segnato la sua educazione cinefila: uno non può girare “La forma dell’acqua” se non ha amato alla follia “Il mostro della Laguna nera”. Introduce le otto storie personalmente, come faceva Hitchcock, vicino a una casetta in legno che girando la manovella si espande e sembra sputar fuori soffitte e torrette. Per dirigere gli episodi ha invitato i suoi collaboratori di sempre, e un paio di new entry: l’australiana Jennifer Kent che si era fatta notare con “Babadook”, e l’iraniana Ana Lily Armirpour, regista di “A Girl Walks Home Alone”. Le storie sono diverse, con diversi gradi di paura secondo la scala stabilita da Stephen King: testa, cuore, stomaco. Ci sono depositi di anticaglie, ratti, demoni, imbalsamatori, desideri esauditi con il loro codazzo di amare lacrime.

 

WE CRASHED

con Jared Leto, Anne Hathaway (Apple tv+)

L’imprenditore seriale Jared Leto cerca di vendere (invano) due sue invenzioni. Primo: la tutina per bambini Krawlers, con ginocchiere incorporate – “loro non possono dirlo, ma le ginocchia gattonando fanno male”. Secondo: un modello di scarpe con il tacco che all’occasione diventa una scarpa piatta (e forse viceversa: la dimostrazione si interrompe sulla mano sanguinante della modella, e il tacco ancora svetta). Nato a Tel Aviv nel 1979, cresciuto in un kibbutz, comandante della marina israeliana nonostante la dislessia, ha l’idea di vendere monolocali con servizi in comune, “vite condivise”, Altro insuccesso, gli dicono: “Non ho faticato all’università per vivere ancora in un dormitorio”. Intanto corteggia Anne Hathaway, maestra di yoga a un dollaro per allievo (gli altri li trattiene il guru). E’ la storia vera (con i nomi cambiati) di Adam Neumann e della moglie Rebekah. Cugina di Gwyneth Paltrow, lei voleva fare l’attrice. Lui puntava ai miliardi. Un po’ di spirito imprenditoriale e un po’ di “stai bene con te stesso, devi mettere il cuore in quel che fai”, più un socio cresciuto in una comune femminista, ecco l’idea: spazi di lavoro condivisi. L’azienda si chiamava WeWork, voleva “elevare la coscienza del mondo”. Poi al “quartier generale galattico” cominciarono i brutti momenti, registrati nel documentario “Making and Breaking a 45 Billions Unicorn”. La serie punta su Jared Leto e Anne Hathaway, strepitosi e fuori di testa. “Carineria tossica”, scrive un recensore.

 

WHAT WE DO IN THE SHADOWS 

di Taika Waititi & Jeanine Clement (Disney+)

Cose che succedono tra coinquilini. “Ho trovato roba mezza bevuta giù in cantina, non deve più succedere”, dice il vampiro Novak (detto il Sanguinario quando combatteva per l’impero Ottomano). Il servitore Guillermo, che li sveglia appena fa buio e ripara le cerniere arrugginite delle bare, vorrebbe dichiarare il suo accordo (è lui che deve smaltire i cadaveri “bevuti”, meglio se di vergini). Ma alle assemblee hanno diritto di parola solo i vampiri. Gli altri sono Laszlo e Nadja, 310 anni lui, 500 lei. E’ la versione americana, ambientata a Staten Island, del film neozelandese con lo stesso titolo, anno 2014. Maori per parte di padre e ebreo per parte di madre – a volte usa il cognome Cohen – Taika Waititi è il regista di “Jojo Rabbit”, Oscar nel 2019 per la migliore sceneggiatura non originale (non che non lo fosse, ma l’idea era venuta alla romanziera Christine Leunens). I vampiri casalinghi sono richiamati all’ordine dal più decrepito barone Afanas, arrivato dall’Europa e convinto che i suoi pari abbiano conquistato il Nuovo Mondo. Le gag sono in tono, la serie funziona come un mockumentary, o finto documentario. I vampiri e il servitore di tanto in tanto guardano in macchina e fanno degli “a parte” (valgono i precedenti scespiriani, o Kevin Spacey in “House of Cards”). L’invenzione geniale è il vampiro diurno che si nutre di energia. Vestito da impiegato con il gilet sulla camicia, si finge assicuratore, espertissimo in ogni materia che all’interlocutore non interessa, e ha sempre la sua infanzia come jolly. Parla, parla, parla senza stancarsi. Fino a sfinimento della vittima.

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