La conferenza stampa del film The girl in the fontain alla 39/a edizione del TFF (Foto Ansa) 

l'intervista

Monica Bellucci racconta Anita Ekberg e se stessa: "Oggi noi attrici siamo libere"

Giuseppe Fantasia

Lo stereotipo delle bellezza, il cinema come strumento per esprimere altro di sé, la forza delle donne che resiste al tempo e all'età, l'omaggio alla diva resa celebre da Fellini ne "La dolce vita" con "The girl in the fountain". "Essere me stessa quando recito? No, mai. Sennò sarei morta”

“Sa una cosa? Sono stata fortunata. C’è sempre lo stereotipo delle attrici belle che soffrono per questo e della bellezza che sacrifica la possibilità di esprimersi al meglio, una sorta di maschera che esclude le possibilità. Nel mio caso, invece, il cinema mi ha permesso di poter esprimere anche altre cose”. Siamo in una Torino piena di vita e di energia, tra un’Artissima e le ATP Finals appena concluse, la lectio magistralis di Christine Lagarde al Teatro Carignano e la 39esima edizione del Torino Film Festival, tutt’ora in corso, dove oggi è arrivata lei, la diva italiana più conosciuta al mondo.

Avvolta da un impermeabile color argento da cui emergono due altissimi stivali Louboutin, neri come l’abito che indossa, Monica Bellucci scruta, osserva, ascolta e parla con quella sua voce che oramai la caratterizza da tempo, passando dall’italiano al francese e viceversa. Città di Castello, la cittadina in cui è nata, è lontana, ma non nei suoi ricordi e affetti. Del resto, nella vita si migliora se si è intelligenti, se si hanno forza e carisma “e se si hanno proposte”, precisa lei. Come “The girl in the Fountain” ad esempio, il nuovo docu-film di Antongiulio Panizzi in cui si mette alla ricerca di un grande personaggio come Anita Ekberg – resa celebre da Federico Fellini ne “La dolce vita” – “per riscattare e riscoprire il percorso di una donna libera e indipendente che ha pagato un prezzo troppo alto per non voler sottostare a nessuno”.

Due dive a confronto, dunque, due epoche e due storie diverse, ma al tempo stesso due storie che si parlano continuamente in un dialogo sottile che è sempre in correlazione. La storia della Ekberg e della sua vita straordinaria, piena di successi, scandali, amori e delusioni e quella di un’attrice di oggi che si trova a interpretare la diva di un’epoca passata. “Con una grande differenza però”, aggiunge la Bellucci. “Lei era purtroppo nata in un periodo in cui il cinema non permetteva a una donna di continuare la sua carriera dopo una certa età. Ci sono cose che la rendono innocente, perché era schiava di quell’epoca in cui non aveva, tra l’altro, neanche una protezione maschile come altre. Oggi noi attrici siamo libere, rimproveriamo le produzioni, non permettiamo a nessuno di trattarci male o di dirci frasi del tipo 'se non fai questo, non lavori più'. Siamo viste in un altro modo e questo è anche grazie a noi donne che ci amiamo e ci rispettiamo di più”.

 

“Si può essere attrici e si può essere madri, come nel mio caso (ha due figlie: Deva e Leonie avute con Vincent Cassel, ndr), e vivere benissimo”. “Essere un’icona – precisa - è pericolosissimo, perché resti in una teca di vetro. Che ci fai? Bisogna essere vive, lo abbiamo dimostrato e continueremo a farlo. Non siamo più imbalsamate e intoccabili, non siamo più Nefertiti, siamo donne. Mai più vergognarsi del tempo che passa, perché ci sono tante altre cose. L’anima e l’energia non hanno a che vedere con l’età. I tempi sono cambiati e io, ad esempio, posso esprimermi e lavorare pur non avendo più 20, 30 o 40 anni… nel mio caso sono più di 50”, aggiunge ridendo.

La Diva de La Dolce Vita - raccontata in questo film di Panizzi, architetto/regista esperto di salite e cadute (ricordate il suo doc My way su Berlusconi?), e scritto da Paola Jacobbi con Camilla Paternò con musiche di Max Casacci – “è stata una donna totalmente contemporanea” – continua la Bellucci – “che ha avuto il coraggio di essere sé stessa sul lavoro, un sex-symbol che rifiutava di farsi manipolare, ma anche una donna emancipata e indipendente nel privato”. “Il film è un piccolo gioiello che ho accettato di fare con grande umiltà, amore e paura per ridare luce a questa donna a cui la vita, a un certo punto, gliela tolse. Arrivò in Italia, a Roma in particolare, e se ne innamorò portando con sé tutta la sua energia straordinaria. Ma senza la luce, a un certo punto, si spense anche l’artista”.

La fontana, dunque, la imprigionò, ma "The girl in the fountain" – al cinema l’1 e 2 dicembre per Eagle Pictures che l’ha prodotto con Dugong Film – finalmente, la libera. “Non ci siamo mai incontrate”, continua lei, nata il 30 settembre, il giorno dopo quello della diva svedese (“Ah sì? Non lo sapevo?”), “ma l’ho vista e conosciuta solo attraverso quelle immagini forti e potenti di cui si sono innamorati tutti. Quello che emerge, guardandole, è qualcosa di buono e se è stata fastidiosa e sincera come una bambina che si mette a nudo, la si perdona. Per questo mi è venuta voglia di difenderla. Il film è un inno a lei”.

Dicono sempre che la Ekberg non abbia mai cercato di essere altro se non sé stessa. Viene ribadito anche nel documentario da una delle voci fuoricampo (sono di Hèlène Chanel, l’unica amica del cinema che andò al suo funerale con Marco Giusti, Francesco Vezzoli, Enrico Lucherini, Paola Pitagora, Claudio Masenza e altri) e anche da Monica’, come la chiamano in Francia, a teatro nei panni della Callas, al cinema della Ekberg. “Non è mica facile rappresentare sé stessi al cinema. Per farlo, bisogna saper recitare anche quello”. E lei, le chiediamo, ha sempre cercato e cerca di essere sé stessa quando recita? Ci fissa di nuovo, sposta gli occhi verso l’alto, muove il labbro e in un microsecondo torna da noi, fissandoci di nuovo. “No, mai. Non sono mai me stessa, sennò sarei morta”.

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