Don Masino e i suoi fratelli

Al cinema e in tv l’epopea del criminale Buscetta. E i pentiti che sono venuti dopo? Furbastri a carico dello Stato

Riccardo Lo Verso

E’ la dilatazione nel tempo, la capacità di resistere agli eventi, che trasforma una storia in epopea. Una storia ha un principio, uno sviluppo e una fine. Tommaso Buscetta era un mafioso, Tommaso Buscetta si è pentito e ha raccontato la mafia come nessuno prima di lui aveva fatto, Tommaso Buscetta è morto. Fine della storia, e inizio dell’epopea del “boss dei due mondi”. Buscetta è per sempre. La parabola di don Masino ha raggiunto la fase del pentitismo editoriale. Le sue azioni, criminali e post criminali, diventano gesta da raccontare, vanno oltre le categorie spazio-temporali dei comuni mortali. Il dilemma si fa esistenziale: è nato prima l’uovo o la gallina? La verità è che senza i media la storia di Buscetta non sarebbe mai diventata epica e oggi si arricchisce di due nuovi capitoli. Il grande pubblico ha potuto vedere in prima serata su La 7 “Our Godfather: The Man the mafia Could Not Kill” (“Il nostro Padrino: l’uomo che la mafia non poté uccidere”), documentario firmato dai cineasti statunitensi Max Franchetti e Andrew Meier. Un lavoro ben fatto, specie nella raccolta del materiale inedito sulla vita di Buscetta. Cosa faceva, come viveva, qual è stato il rapporto di Buscetta con moglie e figli mentre era sotto protezione in America: “Our Godfather” è tutto questo.

Le sue azioni, criminali e post criminali, diventano gesta da raccontare. Il ruolo dei media e due nuovi capitoli

 

 

Consegna allo spettatore l’aspetto più intimo della vicenda senza dovere neppure guardare attraverso il buco della serratura. Buscetta che mangia, Buscetta che gioca nel giardino di una villetta in perfetto stile americano, Buscetta che apre i regali di Natale, Buscetta che si fa in quattro per tenere in piedi la sua famiglia, di sangue non di onore. Sono immagini che strizzano l’occhio alla visione epica del collaboratore di giustizia. L’umanità è mostrata sullo scaffale della schermo televisivo. Basta allungare la mano per afferrarla e trovarsi, senza neppure accorgersene, a simpatizzare per Buscetta. Si corre il rischio di perdere di vista la sostanza delle cose. Ci ha pensato un magistrato, l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, a mettere a fuoco il dibattito televisivo. Come? Invitando tutti a non dimenticare l’indimenticabile e cioè che Buscetta è stato innanzitutto un “grande criminale”, uno che, codice penale alla mano, nulla si è fatto mancare.

 

Pignatone ha avuto, dal di fuori, lo stesso ruolo dell’avvocato Franco Coppi nella vicenda processuale, riprodotta dentro il film “Il Traditore” di Marco Bellocchio. Inquadrare Buscetta dall’angolatura dell’umanità genera empatia verso il personaggio. Il regista cede all’epopea, ma cerca di trovare l’equilibrio dell’obiettività. La figura di Coppi, storico avvocato di Giulio Andreotti, fa da contraltare all’immagine del carnefice che diventa buono. Di certo non è un eroe. Le sicurezze di Buscetta vacillarono in un serrato confronto in aula. Il penalista ridimensionò la credibilità del pentito assurto ad oracolo. Un ruolo in cui Buscetta si muoveva a proprio agio con tutta la necessaria teatralità, di cui il boss sapeva di essere dotato. E’ stato considerato il depositario di tutti, ma proprio tutti, i segreti di Cosa Nostra. Era stato legittimato a ritenersi indispensabile e inattaccabile, fino al punto da perdonargli di non avere detto tutta la verità neppure all’uomo che gli “salvò” la vita, Giovanni Falcone.


I pentiti della mafia dei rimasugli servono a puntellare impianti accusatori già solidi. Nessuno si ricorderà di loro già da domani


 

 

L’epopea di Buscetta è approdata al festival di Cannes, completando un percorso partito da lontano. Dalle interviste rilasciate decenni fa ad alcuni giganti del giornalismo. E’ allora che nasce il modello mediatico-giudiziario, i cui rivoli sono contemporanei. Un pentito non può restare confinato alla freddezza di un verbale, per esistere e resistere nel tempo ha bisogno di uscire dalle aula di giustizia. Don Masino ha fatto scuola anche in questo. E così i pentiti fanno le loro comparsate, travestiti, nei talk show televisivi, oppure intervistati sulle colonne dei giornali. Come si intervista un collaboratore di giustizia, si presenta una domanda in carta bollata all’ufficio pentiti? Forse sono i pentiti a scegliere la persona a cui affidare le proprie riflessioni. E’ più comodo, anche per aggirare le norme di sicurezza. Il programma di protezione dovrebbe essere rigidissimo, eppure la cinture di sicurezza si allentano. Lo steccato che dovrebbe separare il collaboratore dal mondo esterno diventa di burro quando ci sono di mezzo un microfono o un taccuino.

 

Il perimetro dei 180 giorni, termine entro cui si deve dire tutto ciò che si conosce della mafia, sta stretto ai collaboratori. Di tanto in tanto i vecchi pentiti, quelli nati sull’onda lunga di don Masino, hanno bisogno di farsi vedere. Altrimenti finirebbero per essere dimenticati come dei delinquenti qualunque. E così capita che Francesco Di Carlo, interpellato dalla stampa, definisca “reduci nostalgici di un passato che non esiste più” i boss che hanno tentato pochi mesi fa a Palermo di rimettere in piedi la cupola di Cosa Nostra. Oppure che Pasquale Di Filippo lanci un appello a Matteo Messina Denaro affinché si costituisca, si arrenda di fronte allo Stato che è più forte e ha vinto. Di quale Stato si parla, di quello che, secondo Di Filippo, è talmente marcio da avere protetto chi ha voluto le stragi? Lo Stato un rigo prima è vincente, e in quello successivo protegge inconfessabili segreti e i farabutti che li custodiscono.

Nel film “Il Traditore” di Marco Bellocchio, il regista cede all’epopea, ma cerca di trovare l’equilibrio dell’obiettività

 

 

Capita pure che Giovanni Brusca chieda scusa per le vittime delle stragi, lo stesso Brusca che con lo Stato ha giocato due partite. La prima, secondo l’impostazione accusatoria, durante la stagione della trattativa Stato-mafia per mettere in ginocchio la Repubblica e obbligarla a cedere ai boss pur di fermare le bombe. La seconda, per ottenere benefici carcerari e permessi premio. Capita che un altro pentito storico, Gaspare Mutolo, nel corso di un’intervista dica che Messina Denaro (sempre lui, il padrino trapanese non è solo l’ultimo dei latitanti, ma anche l’unico a garantire ai pentiti mediatici una ribalta nazionale) al massimo può fare il capo a Trapani e dintorni perché i palermitani mai gli consentirebbero di stare al vertice. Lo dice Mutolo, che ha smesso di fare il mafioso da una vita.

 

Il problema si fa serio quando si registra il percorso inverso. Dai verbali si è passati ai media, ma dai media si ritorna nei processi. I pentiti, questi smemorati, ricordano dopo decenni di collaborazione verità terribili che hanno taciuto. Vincenzo Lo Giudice, un tempo a capo di uno dei più potenti clan di Reggio Calabria, ad esempio, si era dimenticato di riferire che fu il poliziotto Giovanni Aiello, alias Faccia di mostro, personaggio a cui sono state attribuite le peggiori nefandezze, aveva in mano il telecomando della strage Borsellino. E avrebbe pure partecipato all’omicidio dell’agente Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, trucidati nel 1989. A Maurizio Avola, killer catanese di ottanta omicidi, la memoria è tornata venticinque anni dopo essere diventato un collaboratore di giustizia. Si è ricordato che fu un commando di siciliani e calabresi ad assassinare, nel 1991 a Villa San Giovanni, il magistrato della Corte di Cassazione Antonino Scopelliti. Quel delitto avrebbe suggellato il patto fra la mafia siciliana e la ‘ndrangheta calabrese durante la stagione stragista. Le indagini sulla trattativa Stato-mafia (l’inchiesta a Palermo ha prodotto l’aporia della condanna in primo grado di mafiosi e ufficiali dei carabinieri, e l’assoluzione in due processi di Calogero Mannino che, secondo l’accusa, diede il via al patto sporco) sono da qualche tempo approdate in terra calabrese. Avola dice di avere ucciso Scopelliti e assieme a lui c’era anche Matteo Messina Denaro. Lo racconta solo oggi, al termine di un travaglio psicologico che lo ha condotto a smettere di avere paura dei “circuiti massonici” a cui il boss trapanese è legato. Ci sono sempre gli uomini neri a tappare la bocca.


Il problema si fa serio quando si registra il percorso inverso. Dai verbali si è passati ai media, ma dai media si ritorna nei processi 


Racconti impossibili da verificare, ma anche da smentire. Basta e avanza per imbastire nuovi processi, ma non per interrogarsi sulla giustizia che ne è venuta fuori. Il risultato è che dopo decenni le verità non ci sono e non si ha il coraggio di dire che la responsabilità è anche dei pentiti e della loro gestione. Per farlo bisognerebbe ammettere che la giustizia si è troppo spesso appiattita sulle dichiarazioni di pentiti e testimoni, che una certa magistratura ha trovato nei loro racconti ciò che voleva trovare. Senza malafede alcuna, ma per il difetto, tutto umano, di guardarsi allo specchio e di piacersi. In alcuni casi è la generosità del pubblico ministero a spingerlo nel confortevole abbraccio dei collaboratori di giustizia, a fargli perdonare le dichiarazioni tardive che, a mente fredda, dovrebbero indurre a riconsiderare il riconoscimento del programma di protezione e della premialità che prevede. Ed invece c’è posto per tutti sotto l’ombrello dello Stato. Lo Stato assassino che ha ucciso i suoi figli migliori, sacrificandoli all’altare delle trattative varie, mantiene una pletora di collaboratori destinatari del reddito di cittadinanza per ex mafiosi. Il pentitismo editoriale tocca con Buscetta il punto più alto. Gli altri venuti dopo di lui si devono accontentare delle bucce, degli scarti tranne Salvatore Contorno, che si accodò a Buscetta. Si narra che quest’ultimo gli diede il permesso di collaborare. “Cosa Nostra è finita Totuccio, puoi parlare”. Non è un caso che Contorno faccia la comparsa, il comprimario di Buscetta nel film come nella vita. Tutti gli altri si arrabattano fra libri, interviste, articoli, ma vuoi mettere la Croisette di Cannes o la notte degli Oscar, manifestazione alla quale l’Italia ha deciso di candidare “Il Traditore”. Non gli resta che accontentarsi del bicchiere mezzo pieno. Non saranno mai come Buscetta, ma neppure come i pentiti della nuova mafia. Picciotti di borgata sono diventati boss e quando si pentono hanno da raccontare storie di malaffare. Giuseppe Tantillo, mafioso del rione Borgo Vecchio, faceva le dirette Facebook per mettere in piazza le vergogne di chi lo denigrava. E’ la mafia di oggi che regna in una città, Palermo, dove troppa gente si riconosce nella subcultura se è vero, come è vero, che certi modelli restano dominanti. Chi si pente oggi ha pochissimo da raccontare rispetto a ciò che gli investigatori hanno già raccolto senza il loro aiuto. Niente di sostanziale viene svelato che non sia già noto. I pentiti straccioni della mafia dei rimasugli servono a puntellare impianti accusatori già solidi. Nessuno si ricorderà di loro già da domani.

 

E’ nel passato allora, a Messina Denaro che è l’ultima pedina in libertà della Cosa Nostra che fu, alla guerra degli anni Ottanta, allo scontro fra i boss palermitani e i corleonesi di Totò Riina, agli scappati in America, che si deve rimestare per farsi notare oltre i confini dello Stretto. La galleria dei buoni da cui attingere si è quasi esaurita, ma l’antimafia editoriale bisogno di auto alimentarsi. I vecchi pentiti hanno il cassetto dei ricordi sempre pieno. E’ vero, non saranno mai protagonisti di un epopea come lo è il boss dei due mondi, don Masino Buscetta, almeno non saranno schiacciati dall’indifferenza.