La giuria di Venezia con il presidente Guillermo del Toro (foto LaPresse)

Politica a Venezia

Mariarosa Mancuso

Alla Mostra del cinema i registi si sono presi la briga di ristabilire i fondamentali. Altro che evasione

Tutto attorno, fake news (o proposte di legge contro le fake news, peggio del male che si vorrebbe combattere). Tutto attorno, proclami contro la democrazia parlamentare, superata come i treni a vapore. Anche proclami contro l’Europa che – addio comunità a cui aderire con trattati e firma – viene raccontata come una feroce dittatura. Per la politica bisognava andare alla Mostra di Venezia. Altro che evasione, come si usava dire quando nei cinema si entrava a film iniziato (non esistevano le prenotazioni, né i posti numerati). Andando controcorrente, i registi si sono presi la briga di ristabilire i fondamentali.

 

The Favourite” di Yorgos Lanthimos (ma il merito va agli sceneggiatori Deborah Davis e Tony McNamara, hanno scritto il dramma per la Bbc) oltre alla guerra tra dame racconta i “whig” che stavano con i commercianti londinesi e i “tory” che stavano con i proprietari terrieri e la regina Anna. I nomi vengono dagli insulti che un gruppo lanciava all’altro: dal ’700 a oggi si sono evoluti e ora “Parlamento britannico” evoca un’Aula piuttosto ordinata e capace di civile discussione. Tornare agli insulti – parlamentari o sulla piattaforma Rousseau variamente hackerata – non pare un progresso.

 

 

Paul Greengrass in “July 22” racconta il terrorismo – non è la prima volta, aveva già girato “United 93” a bordo dell’aereo che l’11 settembre 2001 era diretto sul Pentagono e fu fatto precipitare dai passeggeri eroi. “Eroi” sta nella sceneggiatura, il regista non ha paura a schierarsi: il suo primo film “Bloody Sunday” rievocava la domenica di sangue a Derry, nel 1972, quando i paracadutisti britannici aprirono il fuoco sui manifestanti. Qui siamo a Oslo e poi sull’isola di Utoya, dietro al terrorista che voleva morti “i liberal e l’élite”, quindi imbracciò le armi e fece strage di ragazzini. Attentato, processo, la dolorosa rieducazione di un sopravvissuto che vuole testimoniare stando in piedi. L’avvocato della difesa, più volte minacciato di morte, rifiuta la stretta di mano del cliente: benissimo il garantismo, la perizia psichiatrica e il giusto processo, ma alla fine bisogna pur segnare le differenze.

 

 

I liberal e l’élite, visti come nemici, tornano in “American Dharma”, il documentario di Errol Morris su Steve Bannon. Vale come terzo capitolo di una serie sul potere, i precedenti erano Robert McNamara (“The Fog of War”) e Donald Rumsfeld (“The Unknown Known”). “Connivenza con il nemico”, è stato il commento sentito più spesso. “Non lo ha davvero messo in difficoltà” è stato il secondo commento sentito più spesso (con l’aggiunta maligna: hanno fatto le scuole insieme).

 

Il ritratto non mostra un genio del male. Mostra un politico abile, un attento comunicatore, una spugna capace di assorbire gli umori attorno a lui, un innamorato del cinema classico americano. Quando c’erano gli eroi, e gli eroi avevano il loro “dharma”: una missione da compiere. A rischio della vita. Non è che se inciampavi a pochi passi da casa la mamma correva a consolarti, e in missione andava qualcun altro (in pratica, lo slogan elettorale del nullafacente & scansafatiche Homer Simpson: “Non può farlo qualcun altro?”).

 

Ripasso di storia

Oltre alle lezioni di politica, i ripassi di storia. Mike Leigh ha ricostruito le rivolte operaie nella Manchester dell’800 (“Peterloo” era il titolo). In “Un Peuple et son Roi”, Pierre Schoeller racconta la presa della Bastiglia, i dibattiti all’Assemblea nazionale, i furori del popolo attorno a re Luigi XVI, ghigliottinato nel 1793 (il precedente film del regista era ambientato all’Eliseo). Se serve un ripasso su cosa sono – davvero – le dittature, viene in soccorso “Opera senza autore” di Florian Henckel von Donnersmarck (il regista di “Le vite degli altri”). Un pittore sotto il nazismo deve dipingere i gerarchi in divisa, poi arrivano i comunisti e lo obbligano alla falce, al martello, al sole dell’avvenire (finalmente libero, a Berlino ovest si darà al figurativo con sentimento). Meglio ancora, “Il processo” di Sergei Loznitsa: le immagini d’archivio dei primi processi staliniani, nel 1930.

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