Moonlight e Barriere per capire i neri dopo Obama

Stefano Pistolini

Due film per riflettere su una fase cruciale che non dovrebbe essere lasciata soltanto ai libri di storia

In un articolo sull’ultimo New Republic si ragiona di tutto ciò che il doppio mandato di Barack Obama ha introdotto nella società e nella cultura americana e che è destinato a finire cestinato, con il colpo di spugna che Donald Trump è intenzionato a mettere in atto. Prendiamo il cinema. Negli Stati Uniti sono in circolazione due film (presto anche da noi), che toccano questo punto dolente, ovvero riflettono su ciò che Obama, con le sue parole e i suoi stimoli, ha messo in circolo nell’America degli Anni Dieci, e il cui posizionamento ora verrà rivisto da chi siede ai nuovi posti di comando. “Moonlight” di Barry Jenkins è un grande film, accomunato all’altra pellicola di cui parliamo, “Barriere” di Denzel Washington, da una trionfante galleria di performance recitative di interpreti noti o sconosciuti, con l’effetto d’indicare che, quando c’è unità d’intenti estetica ed intellettuale, sul grande schermo possono essere ancora aggiunti risultati di ragguardevole suggestione, sia pure in assenza di grandi mezzi.

In entrambi i film la rappresentazione è interamente occupata da personaggi di colore, al punto da far pensare che esista una visione – artistica e psicologica – che nell’attuale produzione artistica afroamericana, isoli completamente i contesti razziali. Entrambi i film toccano punti da sempre situati al centro della visione di Obama e della sua poetica, al punto da far pensare che non sarebbero mai nati, almeno in questa forma, in assenza di questo presidente. “Moonlight” affronta con un approccio straordinario per raffinatezza ed ellitticità, il tema dell’omosessualità nella comunità “black”, con le aggravanti del maschilismo, dello sciovinismo, del moralismo di radice religiosa e culturale, che ha circondato  la questione. Obama ebbe il coraggio di porre il problema proprio ai fratelli neri abituati a invocarlo come riparatore dei torti subiti. “Guardiamo prima dentro di noi, nella comunità, nelle famiglie, nelle relazioni, prima di puntare il dito verso l’esterno, verso l’altro, verso l’incolmabilità delle differenze” era il suo messaggo. Valutiamo il grado della nostra intolleranza, il bigottismo, il conformismo. L’omosessualità tra gli afroamericani ha costituito un tabù difficilmente sradicabile, alla base di una costellazione di episodi di persecuzione, bullismo, esclusione. Il diritto alle scelte e al proprio orientamento è stato posto da Obama al centro della discussione coi fratelli neri e un film come “Moonlight” – seguendo laparabola di autoisolamento di un giovane gay nero di Miami – rappresenta la descrizione e la storicizzazione di questo procedimento collettivo, ora sull’orlo dello sbigottimento, davanti ai primi passi con cui la nuova ammnistrazione si rappresenta, a cominciare dalla cancellazione di ogni riferimento ai diritti Lgbt praticato dallo staff di Trump dal sito della Casa Bianca. “Barriere” è un film diverso, che privilegia la parola ai silenzi di “Moonlight”, che si rifà a una drammaturgia classica più che a un’iconografia contemporanea, ma che punta a stimolare la conversazione su una serie di luoghi comuni che sono materia accertata della cultura afroamericana. “Barriere” vive della performance memorabile di un gruppo di attori coinvolti mirabilmente nella rappresentazione, al punto da meritare una petizione per un Oscar collettivo, senza se e senza ma.

 

Un titano battuto che non cerca riscatto

La piéce di cui il film è una fedele trasposizione (stesso cast, identico script) è di August Wilson, il più importante drammaturgo afroamericano, degno contraltare, per temi e stile, di Tennessee Williams. Ambientato nella Pittsburgh del sottoproletariato nero Anni Cinquanta, affronta con impeto e lungimiranza, i temi della vita-in-nero nel secolo del riscatto e del risarcimento. Ma al di là della galleria di splendidi personaggi, “Barriere” genera nel protagonista Troy Maxson, visceralmente interpretato da Washington, un case history nel tentativo di risanamento psicologico della razza, attraverso l’auto-benevolenza di Troy, il compiacimento, la tendenza alla celebrazione della sconfitta e alla malinconia. Troy è un titano battuto, che anziché imboccare la strada del riscatto, opta per la contemplazione di ciò che avrebbe potuto, ma non è stato. Non è lui, ma le altre figure della storia, in particolare la moglie Rose (Viola Davis), a intravedere lo spiraglio di luce. Perché le soluzioni, come predicava Obama, i neri prima che pretenderle, devono elaborarle, in un lavoro personale e collettivo. Sante parole, che in film come questi divengono opere d’arte. Che vorremmo fossero il fondamento di una crescita. Non il reperto di un tempo sfumato nelle tenebre del passato.

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