(foto Ansa)

l'analisi

Come cambia la ristorazione italiana nell'età dell'inflazione

Dario Di Vico

Verso una polarizzazione tra imprese familiari, in maggiore sofferenza, e ristoranti pregiati e grandi catene commerciali e take away

E’ stata l’estate dei toast divisi a metà e “sanzionati” con un supplemento di prezzo ma è stato anche il culmine di un periodo che ha visto aumentare significativamente i prezzi del ristorante medio. E’ sempre difficile tracciare una linea che valga per tutti ma anche in una buona trattoria situata nel centro di una grande città si finisce per spendere per un pranzo o una cena tra i 45 e i 55 euro a persona. Ovviamente l’aumento dello scontrino genera nei consumatori l’adozione di tattiche che potremmo definire difensive: non si ordina più primo e secondo ma si sceglie un solo piatto, se si è in compagnia l’antipasto o il dolce lo si divide con il compagno di tavolo. Dal canto loro i ristoratori hanno già preso le contromisure e hanno aumentato maggiormente il prezzo dei primi (i più richiesti) rispetto ai secondi. In merito l’aneddotica è ricca ma per capire le traiettorie che prenderà la ristorazione italiana nella stagione dell’inflazione bisogna cercare di individuare le tendenze di fondo. Operazione non facile in un mercato dove operano tanti piccoli soggetti (le imprese familiari valgono più dell’80 per cento dell’offerta) e le catene commerciali contano per l’8 per cento. L’impressione è comunque che l’aumento dei prezzi di cui sopra segni una sorta di boa, per tutto ciò che definiamo tradizionale nel campo della ristorazione è iniziato un lungo e difficile giro. Il contenimento dei prezzi che abbiamo conosciuto in passato, quando l’inflazione praticamente non esisteva, si basava anche su formule organizzative del passato: le donne di casa tutto il giorno nella cucina del ristorante, i proprietari presenti in sala h24, facile reperibilità della manodopera anche a costo di un turnover elevato.

 

Nel prossimo futuro queste condizioni non si riproporranno. Sappiamo benissimo come da tempo assumere giovani disposti a lavorare in cucina o in sala è sempre più difficile, vuoi per le paghe che non arrivano a cifre giudicate soddisfacenti vuoi perché l’arco di apertura del punto vendita costringe a turni che non si considerano più accettabili. Successivamente con l’inevitabile ricambio generazionale verrà meno anche la manodopera di famiglia e far quadrare i conti diventa sempre più difficile.

 

Già quest’estate la ristorazione ha tenuto il passo grazie ai turisti perché il mercato per così dire interno è stato più selettivo. Si va a mangiare fuori con minore frequenza o si ordinano meno portate. Quando avremo dati più precisi sapremo se lo scontrino medio è diminuito e il fatturato complessivo del settore. Ma è chiaro che la stagione del cibo a buon mercato è terminata e tutti si muovono con la paura di sbagliare formula (i ristoratori) e con il timore di pagar troppo (i consumatori). L’unica fascia di offerta che non sembra aver problemi – come del resto avviene in altri settori – è quella che potremmo chiamare del lusso che si confronta con una domanda sostanzialmente indifferente all’ammontare dello scontrino. Come parzialmente lo sono i turisti che hanno affollato le città d’arte, specie se americani. Se uno straniero trova nel menù un piatto di trofie con il pesto prezzato a 20 euro ci passa sopra ma se il cliente (italiano) abituale di una trattoria viene messo di fronte alla stessa situazione si inalbera. Per usare un eufemismo.

 

Se le cose stanno così è chiaro che quella che ci si prospetta, soprattutto nei centri delle grandi città, è una drastica selezione dell’offerta sul versante delle imprese familiari. Che stretti tra inflazione a doppia cifra dei generi alimentari, canoni di locazione in aumento e maggiori costi del personale, finiscono per rivedere i prezzi e ottimizzare i costi, sperando così di trovare un nuovo equilibrio finanziario. Tecnicamente gli esperti del settore sostengono che andiamo verso la solita polarizzazione anche in questo campo, con un soggetto – quello finora descritto – in maggiore sofferenza e altre due categorie che saranno più presenti. Quella dei ristoranti pregiati e quella delle grandi catene commerciali estere/italiane e dei take away (che agendo come uno sportello di distribuzione contengono al minimo i costi organizzativi e di struttura). Se le cose stessero così ci dovremmo preparare a una seconda mcdonaldizzazione, anche se ovviamente rispetto alla prima il ventaglio delle proposte della ristorazione commerciale nel frattempo si è ampliato all’inverosimile con le piadinerie, i poké, i sushi bar e quant’altro. 

 

Secondo Roberto Calugi, direttore della Fipe, l’associazione dei pubblici esercizi, si deve evitare di perdere l’identità non solo della ristorazione italiana ma anche delle stesse città che potranno veder chiudere alcuni dei locali-simbolo che hanno contribuito a farne la storia. “Dobbiamo far comprendere ai decisori politici che i ristoranti possono essere imprese identitarie fondamentali per l’attrattività turistica e la cultura enogastronomica del paese e imparare dai francesi che in una maniera o nell’altra sono riusciti a tutelare i loro bistrot”.

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