(LaPresse/Palazzo Chigi/Filippo Attili)  

tra chiesa e governo

Com'è largo il Tevere

Un anno dopo il trionfo elettorale, la benevolenza della Chiesa verso il governo Meloni è un ricordo. A Palazzo Chigi non hanno capito che l'èra Ruini è finita da un pezzo

Matteo Matzuzzi

In una conversazione non smentita, la premier ha detto che “su Gaza la Chiesa mi è contro”. Ma quale Chiesa? La Cei? Il Vaticano? Il Papa? I punti veri d'attrito sono su migranti, autonomia, povertà

L’Italia e la Chiesa, ne discuteva già Machiavelli mezzo millennio fa. Un legame inscindibile e unico, che spesso altrove non capiscono o capiscono fin troppo. Tutta la storia italiana è segnata dal rapporto fra il trono e l’altare, il padre del “Principe” scrisse appunto che la “cagione della rovina nostra” è che “la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa”. Quindi nell’Ottocento, le minacce di scomunica e le scomuniche poi davvero comminate, la risolutezza del “re Galantuomo” Vittorio Emanuele II con i suoi “me ne fotto” davanti alle intemerate clericali che gli promettevano la dannazione eterna se avesse sottoposto i preti al giudizio dei tribunali statali anziché di quelli religiosi. Perfino Mussolini, che prima di diventare duce del fascismo non si fece troppe remore a definire la Chiesa un “grande cadavere” e a bollare i preti come “sudici cani rognosi”. Fino a epoche più recenti, il “Vatican taliban” radicale contro le ingerenze della Conferenza episcopale italiana negli affari interni italiani, i referendum sulla bioetica, il ruinismo, il collateralismo. Insomma, il paniere è ricco e la storia nota. 

 

Oggi il tema torna alla ribalta con il governo Meloni, il primo di destra della Repubblica (nel senso più orientato a destra che al centro). Quali sono i rapporti con la Chiesa che, stando alle priorità del pontificato bergogliano, non sembrerebbe in sintonia con l’agenda governativa? Qualche giorno fa, Edward Luttwak ha confessato (non smentito) che la premier ritiene che “su Gaza la Chiesa le va contro”. Che poi, “quale” Chiesa? La Santa Sede? La Cei? Il Papa? E perché le andrebbe contro? In cosa si discosta, la linea italiana sul conflitto israelo-palestinese, dai desiderata d’oltretevere? Non pare che l’Italia – come del resto gli altri paesi europei – abbia un ruolo particolare rispetto a quel che accade nel vicino oriente dopo il 7 ottobre, tanto da far arrabbiare la diplomazia vaticana. Anzi, da Farnesina e Palazzo Chigi si fa un gran parlare di due popoli-due stati, cioè della linea antica e sempreverde della Santa Sede, ribadita più volte in questi quasi due mesi di guerra dal segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin. E’ utile allora allargare lo spettro, andando oltre la questione Gaza, per cogliere i segnali di insofferenza. Leggera o pesante che sia, qualcosa è cambiato rispetto a un anno fa. 

 

Dopo le elezioni politiche del 2022, nonostante il battage mediatico contrario e le prese di posizione di preti cosiddetti di strada, vescovi impegnati e laici ben orientati, l’episcopato italiano manifestò una chiara benevolenza nei confronti della prima premier donna nella storia d’Italia. Toni molto bassi, spirito collaborativo manifestato a ogni occasione utile, plauso alle promesse di fare qualcosa per combattere il calo demografico e per aiutare le famiglie. Il tutto bollinato dal Papa in persona, che riceveva Meloni tra sorrisi e apprezzamenti, con il culmine della simpatia toccato a maggio, durante gli Stati generali della natalità, quando la presidente del Consiglio si presentò vestita di bianco – “siamo vestiti uguali”, disse ridendo Francesco. Perfino sul terreno più scivoloso, quello dell’immigrazione, pochi eccessi. Commenti rari, niente tensioni ma tanta comprensione. Perfino i discorsi pronunciati in Ungheria da Viktor Orbán, con le scudisciate date alle burocrazie brussellesi, avevano fatto stampare bottiglie di prosecco nei dintorni di Palazzo Chigi. E indubbiamente tanti temi sollevati a Budapest da Bergoglio potevano essere tranquillamente ripresi in qualche comizio o festa di Fratelli d’Italia e naturalmente della Lega. Un quadro idilliaco, perché se è vero che come diceva Giordano Bruno Guerri “in Italia senza la Chiesa non si governa” – e chissà se l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino avrà colto una sorprendente congiuntura astrale fra le bordate del Papa sulla sua presenza a Philadelphia nel 2015 (“Io non l’ho invitato”) con la conseguente caduta e fine prematura del mandato – è fondamentale essere più o meno sintonizzati sulle frequenze impostate dall’altra parte del Tevere. 

 

Fino allo scorso settembre, a undici mesi dall’entrata in carica del governo. Il Papa va a Marsiglia per partecipare agli “Incontri mediterranei” e pronuncia parole chiare ma che non possono piacere al fronte nazional-sovranista. “Noi credenti dobbiamo essere esemplari nell’accoglienza reciproca e fraterna”; “Troppe persone, in fuga da conflitti, povertà e calamità ambientali, trovano tra le onde del Mediterraneo il rifiuto definitivo alla loro ricerca di un futuro migliore”. Mediterraneo che “è diventato un enorme cimitero” dove “a venire seppellita è solo la dignità umana”. Ci sono due atteggiamenti, aggiunse Francesco: “Da una parte la fraternità, che feconda di bene la comunità umana; dall’altra l’indifferenza, che insanguina il Mediterraneo”; Noi siamo a “un bivio di civiltà”; “Non possiamo rassegnarci a vedere essere umani trattati come merce di scambio, imprigionati e torturati in modo atroce; non possiamo più assistere ai drammi dei naufragi, dovuti a traffici odiosi e al fanatismo dell’indifferenza. Le persone che rischiano di annegare quando vengono abbandonate sulle onde devono essere soccorse. E’ un dovere di umanità, è un dovere di civiltà”; “E’ necessario “superare la paralisi della paura e il disinteresse che condanna a morte con guanti di velluto”.  Ancora, “alle radici dei tre monoteismi mediterranei c’è l’accoglienza, l’amore per lo straniero in nome di Dio”. Citò David Sassoli e concluse dicendo: “Basta avere paura dei problemi che ci sottopone il Mediterraneo. Per l’Unione europea e per tutti noi ne va della nostra sopravvivenza”. 
Si trattava sì di una sottolineatura diretta in primo luogo al governo francese, come s’evidenziò fin da subito, ma è evidente che il messaggio andava ben oltre gli steccati nazionali. Ed era, quello del Papa, un intervento assai diverso dalle frasi pronunciate davanti ai giornalisti che l’accompagnavano a Lund, in Svezia, nel 2015. Allora, Francesco disse “che in teoria non si può chiudere il cuore a un rifugiato, ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare. E se un paese ha una capacità di venti, diciamo così, di integrazione, faccia fino a questo. Un altro di più, faccia di più rapporto con l’altra cultura, questo è pericoloso”.

 

Pochi giorni fa, poi, non appena il governo annunciò il piano per il trasferimento dei migranti in Albania, a intervenire fu direttamente il presidente della Cei: “Di per sé è un’ammissione di non essere in grado. Non si capisce perché non venga sistemata meglio l’accoglienza qui. Non c’è dubbio”. Inoltre, aggiungeva il cardinale Zuppi, “mi sembra che ci siano anche delle discussioni all’interno della maggioranza, quello che sicuramente è importante è avere un sistema di accoglienza che dia sicurezza a tutti, a chi è accolto e a chi accoglie”. Due i punti rilevanti dell’affermazione: la sottolineatura che qualcuno “non è in grado” di gestire autonomamente un fenomeno di tale portata e l’evidenza di contrasti interni alla maggioranza di governo. La scorsa primavera, quindi ben prima dei discorsi papali in Francia, era intervenuto anche il vicepresidente della Cei per l’Italia meridionale, mons. Francesco Savino: “Sono perplesso ad esempio sulla protezione speciale, sulla considerazione del fenomeno migratorio come emergenziale. Mi chiedo, lo è davvero? Non è forse giunta l’ora di rivedere la legge Bossi-Fini? Il sottosegretario Mantovano si è reso disponibile ad aprire un tavolo. Noi come Chiesa abbiamo il dovere di dire, di manifestare le perplessità. Mettiamo da parte pregiudizi e appartenenze ideologiche”. E pure sulle proteste degli studenti universitari, con le loro tende, contro il caro affitti, il presule espresse le sue rimostranze: “E’ una protesta vera, autentica, che risponde ad un oggettivo bisogno. Dico a noi tutti, cerchiamo di ascoltare, perché se non ascoltiamo questi che sono veri bisogni e diritti, il rischio è che veramente si possano creare delle condizioni di rivolta sociale”. Dal Vaticano, il segretario di stato Pietro Parolin diceva: “Non giudico le disposizioni, non tocca a me. Certo, è stato messo in rilievo come le politiche molte volte sono di contenimento e di restringimento, di ripulsa”. Quel che si dovrebbe fare, aggiungeva il cardinale, è passare a “una politica più aperta, di accoglienza, che poi dovrebbe trovare anche manifestazioni concrete nei vari atti legislativi”. E lo diceva a margine della presentazione  del libro “L’Atlante di Francesco. Vaticano e politica internazionale”, di Antonio Spadaro; evento al quale era presente anche Giorgia Meloni.  

 

Attriti che non sono mancati neppure sul fronte povertà: Avvenire, che è il quotidiano dei vescovi, titolava un anno fa in prima pagina “Scaricati 660 mila poveri”, a proposito dell’abolizione del Reddito di cittadinanza. Il rapporto Caritas presentato di recente notava che le politiche di contrasto della povertà “vivono attualmente una situazione di cristallizzazione. Vecchie misure vengono sostituite da altre, all’interno di orizzonti di futuro ancora non chiaramente definibili. Le nuove misure lasciano delle zone d’ombra e, da qui in avanti, meno persone troveranno protezione”. Anche sull’annunciata riforme dell’autonomia, il fronte episcopale contrario è ben nutrito: “L’autonomia differenziata danneggia il sud e l’Italia: non farebbe altro che accrescere le diseguaglianze”. Per questo, “chiediamo alla politica interventi seri, concreti, intelligenti, ispirati da una progettualità prospettica, non viziata da angusti interessi o tornaconti elettorali”, hanno detto i vescovi delle aree interne riuniti a Benevento lo scorso agosto per una due giorni di riflessioni e proposte. Presente, concorde e benedicente, il cardinale Zuppi.
L’errore di Giorgia Meloni, e più ancora dell’inner circle, è stato quello di pensare che bastasse cavalcare la politica famigliare per assicurarsi una tacita simpatia al proprio governo: asili, natalità, demografia, mamme e papà. Tutti temi centrali e fondamentali ma che non esauriscono il piatto di questioni sul tavolo dei rapporti fra l’episcopato e il governo. Anche perché la Cei di oggi, anno 2023, non è quella di venti o trent’anni fa. Ma neanche quella di dieci anni fa. 

 

L’episcopato è cambiato, così come è mutata la sensibilità su certe tematiche. Nessun vescovo lo dirà che oggi in cima all’agenda c’è – su input papale – l’emergenza ambientale rispetto alla fecondazione assistita, semmai si preferisce parlare di “accenti diversi”, di “priorità”, del fatto che la “cultura dello scarto” – espressione assai cara a Francesco – comprende tutto e non solo determinate questioni care alla stagione delle cosiddette guerre culturali e al conservatorismo muscolare di stampo americano ma diffuso pure alle latitudini europee. “Uomini e donne vengono sacrificati agli idoli del profitto e del consumo: è la ‘cultura dello scarto’”, disse durante l’udienza generale del 5 giugno 2013, neanche tre mesi dopo l’elezione al Soglio petrino: “Se si rompe un computer è una tragedia, ma la povertà, i bisogni, i drammi di tante persone finiscono per entrare nella normalità. Non può essere così! Eppure queste cose entrano nella normalità: che alcune persone senza tetto muoiano di freddo per la strada non fa notizia. Al contrario, un abbassamento di dieci punti nelle borse di alcune città costituisce una tragedia. Così le persone vengono scartate, come se fossero rifiuti. Questa ‘cultura dello scarto’ tende a diventare mentalità comune, che contagia tutti”.  

 

L’errore è aver sottovalutato il profondo rimescolamento che c’è stato in questi dieci anni nella Chiesa italiana, non solo a livello di mutamento della compagine episcopale. Sono cambiati gli orientamenti e le istanze, la battaglia culturale di un paio di decenni fa oggi non è altro che una testimonianza per libri di storia. Aver concentrato le attenzioni soltanto su questo campo e su questo specifico spettro ha portato sì a una benevolenza della Chiesa – in Italia, vescovi non vanno mai lancia in resta sulle barricate contro i governi – ma che inevitabilmente doveva venir meno alla prima ondata di barconi dalle coste nordafricane e conseguenti prese di posizione di esponenti governativi. La Cei di oggi, in buona parte, è quella che apprezza commossa parole e opere di Luca Casarini, che regnante Ruini era il no global protagonista al G8 di Genova. Una Chiesa più movimentista, benché con i consueti ritmi dell’elefantiaco e politicamente prudente episcopato italiano. Non aver compreso questo, o averlo compreso fino a un certo punto, porta all’isolamento progressivo e naturale per mancanza di terreno comune su cui costruire un dialogo fattivo e non meramente ispirato alla correttezza diplomatica. 

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.