(Foto di Ansa) 

Educare al lavoro

Occorre andare oltre il dibattito sul salario minimo e il reddito di cittadinanza, dice Carrón

E' maturata anche in Italia la coscienza del legame tra scuola e occupazione, nonostante le opposizioni. La riflessione del teologo ed ex presidente della Fraternità Comunione e Liberazione

C’è una questione centrale nel nostro paese, che la discussione sul salario minimo, sul reddito di cittadinanza, sulla mancanza di manodopera per certe occupazioni che va paradossalmente di pari passo con percentuali preoccupanti di disoccupazione giovanile hanno riportato all’attenzione dell’opinione pubblica, ed è la questione del lavoro. E’ maturata, finalmente, negli ultimi anni anche in Italia pur dovendo affrontare ancora opposizioni ideologiche, la coscienza dello stretto legame necessario tra scuola e lavoro. Altri paesi europei hanno da anni impostato il loro sistema educativo investendo su questo rapporto e hanno infatti percentuali di disoccupazione giovanile quasi fisiologiche. 
Don Julián Carrón, teologo e docente all’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è intervenuto sul tema durante il convegno “Educazione e realtà” di inaugurazione della mostra “Alleanza scuola lavoro. Non è mai troppo tardi”, promossa dalla fondazione Costruiamo il Futuro ed esposta nell’Ateneo milanese alla fine del mese di maggio. Ecco di seguito una sintesi del suo contributo. 

Ubaldo Casotto

 



Il lavoro costituisce oggi una delle più importanti sfide del presente. Per intercettare le spie di questa sfida, basta osservare quello che sta capitando. Il 1° maggio scorso il sindaco di Milano, Beppe Sala, parlava di una rivoluzione epocale di cui elencava alcuni segnali. Diceva: dopo la pandemia "sono arrivate le dimissioni di massa. Il fenomeno della Great Resignation, ci dice che il 40 per cento dei lavoratori mondiali è pronto a cambiare lavoro, mentre tra aprile e giugno dell’anno scorso mezzo milione di italiani hanno dato le dimissioni. In tutto il mondo cresce la filosofia 'yolo', un acronimo per dire 'si vive solo una volta sola’, contribuendo a un cambiamento di scelta del lavoro in funzione della vita”. E concludeva dicendo che si tratta di “una trasformazione antropologica. Dibattere solo di smart working è veramente riduttivo”. 
Per non parlare del fenomeno dei Neet, giovani che non studiano né lavorano. I dati contenuti nel piano Neet Working del governo italiano rilevano che un giovane su tre tra i 20 e  e i 24 anni rientra nella definizione di Neet, mentre tra i giovanissimi (14-19 anni) uno su dieci è fuori sia dal mondo della scuola sia dal mondo del lavoro. Sono dati che esprimono un disagio o una questione da affrontare, dati che esigono una spiegazione.
“La pandemia – ha detto Marco Bentivogli – ha messo in luce molte cose che si muovevano da tempo. Ce ne è una, poco esplorata, di cui solo ora si osservano gli effetti. Ovunque, nel mondo, è più evidente l’abbassamento della soglia di tolleranza con una vita che non rende felici, a partire dalla propria dimensione lavorativa e l’aumento delle dimissioni volontarie. Riguarda la Cina, gli Stati Uniti e in misura molto rilevante anche il nostro paese. […] Il ‘valore’ del lavoro non corre di pari passo con l’importanza soggettiva del suo senso. Ma quest’ultimo è sempre più importante. Mi valorizza, mi fa crescere, mi fa fiorire, mi rende felice? Sono domande che ci si è sempre posti ma che oggi diventano più pressanti, assillanti e definitive”.


"Anche con un lavoro ben pagato e in un’azienda che rispetta le persone, questa sfida ci dice che occorre ripensare un lavoro che renda più umani, se vogliamo che questa sfida che abbiamo davanti possa essere affrontata nella sua profondità e non solo nelle conseguenze. Se non si scopre che il lavoro è qualcosa che ci rende più umani sarà difficile trovare – diceva Mauro Magatti mesi fa – motivazioni per andare avanti. Lo dimostrano queste dimissioni così numerose che ci dicono che bisogna saper offrire una proposta in grado di risvegliare la voglia del lavoro nei giovani."
E’ interessante osservare le tante spie di diversi osservatori che documentano questa situazione. Scriveva, ad esempio, Antonio Polito sul Corriere della sera: "Noi padri abbiamo abusato per decenni dell’argomento che l’impegno nello studio e nel successo scolastico sarebbero stati ricompensati da una vita adulta con più agiatezza e più occasioni di realizzazione. Oggi, invece, se diciamo una cosa del genere a un ragazzo non è affatto detto che funzioni. E questo non solo perché c’è la crisi, c’è la guerra, c’è la pandemia e tutte le altre sciagure che sembrano essersi abbattute sul mondo da un po’ di tempo, ma anche perché l’idea che i giovani hanno di una buona vita è molto diversa dalla nostra e non comprende necessariamente un lavoro, almeno nel senso che diamo noi a questa parola. Sempre di più i nostri figli ci dicono che in futuro faranno altre cose, guadagneranno il necessario con una startup, con i bitcoin o vendendo Non fungible taken o cose così, che noi non conosciamo e di cui non ci fidiamo." Certo – aggiungo io – rischieranno molte volte di trovarsi con un pugno di mosche… ma questa è pur sempre la situazione presente. Per questo mi sembra che la domanda a cui cerchiamo di rispondere non sia per niente superflua, perché tocca nella carne della situazione che stiamo vivendo, perché il lavoro è una dimensione della vita che fa emergere tutta la nostra grandezza di uomini e quindi esige un significato all’altezza della nostra umanità.


Qual è il significato del lavoro? Capire il senso di un’azione che faccio vuol dire cogliere il nesso tra il gesto, enorme o banale, qualsiasi sia il tipo di lavoro che compio, e il destino, il compimento della vita, la pienezza dell’io. Del lavoro si può dire quello che Cesare Pavese diceva dei piaceri: “Quello che l’uomo cerca nei piaceri è l’infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinità”.
Che cos’è questa infinità che cerchiamo a tentoni in tutto quello che facciamo, compreso il lavoro, che è molto più impegnativo dei piaceri? Mi ha colpito un episodio occorso durante una recente vacanza in Toscana con alcuni amici: c’erano state giornate bellissime, panorami mozzafiato, un silenzio che avvolgeva tutti noi; un giorno una persona che ogni mattina rimaneva stupita davanti a un simile scenario commenta: malgrado questo panorama bellissimo, dopo un po’ mi stufo, mi manca qualcosa. Esperienze come questa mi hanno fatto capire che non c’è una situazione umana, per bella che sia, nella quale non emerga l’esigenza di significato, perché la realtà non è adeguatamente percepita dall’uomo come significativa se non si arriva sin lì. Perché senza significato prevale la noia, il disinteresse: uno, prima o poi, si stufa.

 

E quando questa persona raccontò a tavola di questo episodio, per spiegare che il significato non è qualcosa di astratto, una cosa che non c’entra apparentemente niente con la realtà, mi è venuto in mente questo esempio solo apparentemente banale: immagina che un’azienda organizzi una cena in un posto da sogno, come solo una grande azienda può permettersi – il lago, le candele, la musica… un’organizzazione perfetta – sembra che tutto proceda per il meglio, ma che cosa succederebbe a chi fosse lì, davanti a tutta questa bellezza, senza la persona che ama? La serata sarà insulsa, sarà mancante del vero significato; senza di lui o senza di lei diventa insipida. E’ il significato – della cena, del panorama mozzafiato, del lavoro… – quello che cerchiamo. Questo è il senso della frase: l’educazione è introduzione alla realtà totale. Perché mancando il significato, vuol dire che ci siamo fermati solo all’apparenza. All’uomo non basta un’organizzazione perfetta, ciò che siamo noi, emerge proprio davanti a una bellezza stupefacente, ma la più fantastica delle cene, senza la persona amata, senza la vera ragione che dia significato è una realtà monca. Per questo, introdurre alla realtà totale nella scuola, in tutto ciò che opera nel sociale, in ogni rapporto educativo, è ciò che può rispondere alla trasformazione antropologica di cui parla Sala.

 

E’ il punto fondamentale, perché il lavoro è espressione del nostro essere, ma il nostro essere è sete di verità, di felicità; quindi non esiste cosa che noi possiamo fare, lavoro o opera, da quelli più umili a quelli più geniali, che possa sottrarsi a questo riferimento, alla ricerca di una soddisfazione piena, di un compimento umano, che è quello che senza grandi elucubrazioni la gente sta cercando, come dicevo citando Bentivogli. 
Che cosa può rispondere a questa sete, a questa ricerca di significato? Una presenza che sia all’altezza della nostra esigenza. Solo essa è in grado di rendere umano il nostro lavoro, perché senza questa presenza io lavoro diventa soffocante e quindi uno cerca di giustificarlo dimettendosi e cercandone un altro, senza risolvere veramente il problema, perché si ritroverà nel prossimo tentativo davanti allo stesso problema che non ha risolto precedentemente.
Si conferma, allora, che tutti i tentativi di fuga messi in atto non sono adeguati alla domanda di ricerca di un significato. Perché il problema del lavoro non sono solo le condizioni, che sempre occorre cambiare e migliorare, ma la mancanza di questo significato. Se la realtà non è la scoperta di quel “tu” che la rende ragionevole e piena di significato, la realtà in fondo ci stufa. Ma per noi cristiani questo “tu” a cui tutta la realtà rimanda, il mistero a cui siamo rinviati in ogni azione per via dell’insoddisfazione che proviamo, il “tu” misterioso che sempre incombe su ogni cosa che facciamo è diventato carne. Il significato è diventato carne: Cristo. Cristo che – come dice san Paolo – è la consistenza di tutto e perciò l’unica speranza che non delude.

 

E’ questa la grande responsabilità che noi cristiani abbiamo davanti alla sfida del lavoro che è sempre più stringente. Chi ha incontrato Cristo sa bene che presa ha sulla persona, che significato introduce nel vivere, nello sforzo a volte pesante del lavoro, nel rendere tutto pieno di un senso, nel dare ragione di una bellezza che altrimenti viene meno. Solo questa esperienza potrà facilitare che il lavoro possa essere vissuto come parte di questa realizzazione per costruire il bene comune, in una collaborazione all’opera del creatore senza la quale il mondo sarà sempre meno abitabile. E’ questa la testimonianza a cui noi siamo chiamati di fronte alla sfida che il lavoro sta mettendo davanti ai nostri occhi. Innanzitutto perché è la difficoltà che anche noi incontriamo nel lavoro, ed è solo se facciamo l’esperienza che Cristo al lavoro può dare significato non siamo condannati solo a soffocarci dentro e possiamo testimoniarlo agli altri. L’attuale momento storico è un’occasione preziosa per rendere testimonianza di che cosa può offrire un’ipotesi di significato non teorica, non soltanto dottrinale o devota, che tante volte diventa pesante. A questo livello è decisiva una compagnia che sia un’amicizia operativa in grado di offrire un’attrattiva nel presente, dentro il lavoro: persone che hanno scoperto che il lavoro non deve essere solo subito ma può diventare altro, qualcosa di cui si può godere e un contributo al bene di tutti.

 


Manca questo desiderio, come dicono i rapporti del Censis da anni? E’ un’esperienza che chiunque insegna oggi non può non riconoscere: la cosa meno scontata è il desiderio. Se ci fossero venticinque ragazzi che vogliono imparare matematica, ci sarebbero mille professori disposti a insegnare per rispondere all’urgenza di quel desiderio. Il problema è invece che la prima cosa che deve fare ogni professore, ogni educatore, ogni persona impegnata in un rapporto educativo è ridestare il desiderio, il desiderio di imparare. E’ la cosa meno scontata. Il desiderio è la chiave per ricominciare. Come riaccenderlo è la grande questione, il “punto infiammato” di cui parla sempre Cesare Pavese. Siamo uomini, il desiderio si riaccende in me se incontro qualcuno in cui sia acceso, vivido: un testimone, una persona che vivendo così sia per ciò stesso un profeta, nel senso originario del termine, non semplicemente qualcuno che rimanda al futuro, ma che già nel presente riapre il desiderio di impegnarsi per il futuro. Servono persone così, una compagnia che sfidi fino in fondo la libertà della persona. Questo è essenziale in ogni rapporto educativo: potere offrire qualcosa che – come diceva sant’Agostino – tocchi veramente il centro dell’io, possa muovere l’uomo nell’intimo. Ne consegue che occorrono spazi di libertà, dove le persone, i testimoni, i vari soggetti operanti in una società abbiano possibilità di esprimersi. La libertà di educazione è cruciale perché chi ha una proposta significativa possa avere lo spazio per poter ridestare chi, i nostri studenti o le persone che si immergono nel mondo del lavoro, in fondo sta solo aspettando che qualcuno lo tiri fuori dal torpore in cui tante volte si trova