Salari e produttività

Forzare la retribuzione verso l'alto non è la soluzione. Il Pnrr è l'unica speranza

Giampaolo Galli

L'Italia ha un colossale problema di produttività, che non significa affatto, come qualcuno sostiene, che la gente non lavora. Significa tutto ciò per cui è stato disegnato il Recovery, a partire dalle pubbliche amministrazioni che non funzionano, la giustizia che di giusto ha ben poco, le università infestate dalle varie concorsopoli

Nell’introduzione di Mario Draghi al Pnrr, è detto chiaramente che l’Italia è uno dei paesi che nell’ultimo quarto di secolo è cresciuto di meno e che dietro questa bassa crescita c’è la stagnazione della produttività. Ma il Pnrr, che pure indica possibili vie di uscita da questa situazione, non scalda i cuori. Se invece si scopre che gli stipendi sono rimasti fermi negli ultimi decenni o addirittura sono diminuiti, questo è un tema che provoca reazioni indignate. Eppure le cose sono due facce delle stessa medaglia. I dati mostrati da Luigi Marattin il 3 giugno su questo giornale dovrebbero dire quasi tutto sull’argomento, ma dato che alcuni non si sono convinti affrontiamo nuovamente il problema e lo facciamo con un pizzico di pignoleria in più. Dal 1995 al 2019, il pil reale per ora lavorata (ossia il pil reale diviso il totale delle ore lavorate da tutti gli occupati) è cresciuto del 9 per cento in Italia, a fronte di valori compresi fra il 30 e il 50 per cento negli altri principali paesi. In Giappone, paese che fino a poco tempo fa veniva definito il malato del mondo, la crescita è stata del 34 per cento; in Germania, una volta considerata, con l’Italia, il malato d’Europa, la crescita è stata del 29; Francia e Regno Unito stanno attorno al 30.

 

A guardar meglio, quel poco di crescita che l’Italia ha sperimentato è avvenuta tutta negli anni Novanta; dal 2000 circa siamo a crescita zero. Il pil per ora lavorata va confrontato con la retribuzione reale per ora lavorata (monte retributivo diviso per le ore lavorate e diviso ancora per il deflatore dei consumi della famiglie). Questa si è mantenuta allineata alla produttività oraria dal 1995 al 2000, ma negli anni successivi è andata oltre fino a che, nel 2009, la distanza fra i due ha raggiunto un massimo di 8 punti percentuali. Negli anni successivi, la crisi schiacciò la crescita del pil e anche quella delle retribuzioni reali, ma tutt’oggi nel confronto con il 1995 la retribuzione supera la produttività di circa 3 punti; la prima si colloca a +12 per cento, mentre la produttività oraria sta a +9 per cento. Si tratta in entrambi i casi di numeri piccoli, che tuttavia si riflettono in un leggero aumento – non una riduzione, come molti pensano – della quota del lavoro sul valore aggiunto e in una parallela riduzione dei profitti: la quota del solo lavoro dipendente sul pil è cresciuta dal 37 per cento nel 2000 al 41 per cento oggi. Com’è allora che le retribuzioni reali sono scese nel 2020? In base ai dati Istat, la risposta sta nelle ore lavorate pro capite che per i lavoratori dipendenti nel 2020 sono crollate, per via della recessione, del 9 per cento; il risultato è che le retribuzioni per dipendente sono scese del 6 per cento nel 2020, con -2,0 per cento rispetto al 1995. Anche escludendo l’anno del Covid, e fermandoci al 2019, le retribuzioni reali per dipendente erano salite solo di un misero 4 per cento rispetto al 1995.

   
Tirando i fili, l’Italia ha un colossale problema di produttività, che non significa affatto, come qualcuno sostiene, che la gente non lavora. Significa tutto ciò per cui è stato disegnato il Pnrr, a partire  dalle pubbliche amministrazioni che non funzionano, la giustizia che di giusto ha ben poco, le università infestate dalle varie concorsopoli. Non sembra invece che ci sia un problema di ore lavorate. Se si esclude il 2020, che è stato eccezionale, fino al 2019 le ora lavorate per occupato erano scese del 7 per cento (sempre rispetto al 1995), più o meno come in Francia e in Germania e meno che in Giappone (-12 per cento). 

  
È possibile che forzando i salari vero l’alto (con una legge o con la contrattazione) le imprese rispondano con aumenti di produttività, ad esempio facendo più ricerca? In astratto non è impossibile, ma è molto improbabile perché i problemi delle aziende italiane, anche quelli che sono interni alle aziende stesse, come le carenza della ricerca, hanno quasi sempre origine all’esterno: è difficile fare ricerca davvero competitiva se, all’esterno, non ci sono centri di ricerca anch’essi competitivi. Dobbiamo anzi constatare che, in questi anni, malgrado l’indubbia moderazione salariale, centinaia di migliaia di imprese sono uscite dal mercato. E credo che nessuno voglia aggravare una situazione che per le imprese è già difficile per via della guerra, degli aumenti delle materie prime, della rottura delle catene del valore, e, soprattutto, di un sistema paese che rende davvero difficile fare impresa in Italia. La via d’uscita c’è e consiste negli investimenti e nelle riforme  che stanno nel Pnrr. Ma sembra che in pochi ci credano davvero.    
 

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