(foto LaPresse)

Cari intellò cattolici, non sarà una marcia disarmata a salvare l'Ucraina

Dire che la guerra deve finire è sacrosanto, così come che è il momento di ricucire le società lacerate. Ma nel concreto, che si fa?

Matteo Matzuzzi

Il problema dell’irenismo italiano è la tendenza che porta a vedere le cose più complicate di quelle che sono nella realtà. Prima era colpa di Putin ma anche un po’ della Nato, poi dei soliti americani, quindi dell’occidente. Quando, in realtà, basterebbe dire solo che Vladimir Putin, il 24 febbraio, ha ordinato al suo esercito di invadere uno stato sovrano

“Mai più la guerra”, aveva detto Papa Giovanni Paolo II dalla finestra del Palazzo apostolico tentando di scongiurare il conflitto iracheno, nel 2003. “Fermatevi”, ha urlato un mese fa Francesco, mentre i carri armati russi già miravano alle case di Mariupol e Irpin. I Papi fanno il loro mestiere, è logico che invochino – di solito inascoltati – la pace e che pensino alle vittime (tutte, senza distinzioni). Quel che è meno logico, o che perlomeno si fa fatica a comprendere, è lo svolgimento della trama  da parte degli intellettuali cattolici che traducono gli input del Pontefice nella realtà. Dire che la guerra deve finire è un auspicio alto e sacrosanto, così come che è il momento di ricucire le società lacerate. Ma nel concreto, che si fa? Il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, a “Piazzapulita” su La7 ha spiegato la sua legittima posizione, chiarendo come si può ottenere la pace: “Deve crescere un movimento dal basso dei cittadini”, serve “un’opposizione non violenta alla guerra” il cui primo embrione sono “le marce disarmate di quelli che vanno in Ucraina per stare vicini alla gente”.

 

  

Tarquinio ha il pregio di riconoscere che la sua visione è pura utopia, ma insomma non sarà né il primo né l’ultimo a sognare di combattere l’aggressore mettendo fiori nei cannoni. Il problema dell’irenismo italiano è sempre lo stesso ed è  la tendenza che porta a vedere le cose più complicate di quelle che sono nella realtà. Prima era colpa di Putin ma anche un po’ della Nato (i Baltici che con la Russia confinano non sembrano essere della stessa idea, chissà perché), poi dei soliti americani che fomentano la guerra –  dopotutto è sempre colpa degli americani, anche quando nel 2001 attaccarono e occuparono l’Afghanistan dei talebani lapidatori – quindi dell’occidente che sanzionando il Cremlino toglie il grano ai bambini africani. Quando, in realtà, basterebbe dire solo che Vladimir Putin, il 24 febbraio scorso, ha ordinato al suo esercito di invadere uno stato sovrano in spregio ad accordi internazionalmente riconosciuti vecchi di quasi un trentennio. Non c’è altro da capire o da guardare, da sottolineare o analizzare. E Putin, che prima ha macellato i ceceni di Grozny, poi si è dedicato a decomporre la Georgia sovrana, quindi si è preso la Crimea e ora vorrebbe  togliere all’Ucraina denazificata l’accesso al mare, non lo si ferma con le marce non violente e disarmate. Anche il cattolicesimo che si richiama così tanto a Gandhi – è così sconveniente citare qualche santo cattolico che ha dato la vita per la pace? – non dovrebbe fare molta fatica a comprenderlo. Scrive padre Antonio Spadaro nella presentazione dell’ultimo numero della collana Accenti dedicato all’Ucraina che “noi oggi siamo chiamati a meditare anche sul fatto che ciò che distrugge sia gli amici sia i nemici è la guerra. Dobbiamo abbracciare il dolore degli ucraini che hanno perso la vita e le loro case (…) e dobbiamo avvertire il dolore delle famiglie russe”. Tutto giusto, così come quando si scrive che “l’alternativa al negoziato sembra una violenza senza fine”.

 

Domanda: ma come si negozia con Putin, ora? Nei giorni precedenti all’invasione si è assistito alla sfilata dei leader a Mosca, messi a capotavola per discutere e proporre, oggi sappiamo di telefonate ogni tre-quattro giorni tra questo o quel capo di stato o governo e l’omologo russo.  Risultato? I cadaveri per le strade di Bucha. Manca, insomma, la risposta alla domanda “che fare?” dopo aver invocato la “abolizione della guerra” e la necessità di “fermarsi”. Si parla di una “risposta non violenta”, certo. Ma in cosa consisterebbe? Cosa produrrebbe la non violenza davanti ai Kadyrov che mirano alla nuca dei civili ucraini? Coltivare gli ideali va sempre bene, poi però c’è la realtà. E la realtà  è che il Patriarca di Mosca la guerra l’ha benedetta, mischiando nazionalismo, identitarismo, addirittura parlando di metafisica. Non sarà una marcia silenziosa disarmata a salvare l’Ucraina e a fermare il massacro.

Di più su questi argomenti:
  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.