Il Papa manda al rogo la cancel culture
Chiarissimo discorso di Francesco al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede contro "una colonizzazione ideologica che invade tanti ambiti e istituzioni pubbliche"
Niente Russia né Taiwan: davanti agli ambasciatori Francesco si scaglia contro chi vuole “riscrivere la storia”. Sacrosanto, anche se dal Vaticano è arrivata qualche mano tesa ai fissati con la politica identitaria
Davanti agli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, nel consueto discorso al Corpo diplomatico di inizio anno il Papa ieri mattina ha parlato di migrazioni e ambiente, di Libia e Libano, di Iraq e Cipro, di Ucraina e Balcani, di Siria e Terra Santa. Non ha speso una parola sulla Cina, benché – considerati i venti di guerra che soffiano tra Hong Kong e Taiwan – il materiale cui attingere non sarebbe di certo mancato. Niente, non una parola in più, neppure riferita all’accordo storico (benché provvisorio) relativo alla nomina dei vescovi. A restare negli annali, invece, sarà l’esplicita condanna della cancel culture. Mai, Francesco, aveva usato tale espressione, ormai entrata nel dibattito pubblico tra una statua rimossa perché dedicata a un ottocentesco generale schiavista e l’abbattimento di monumenti a Cristoforo Colombo in quanto reo d’aver propiziato l’annientamento delle primitive civiltà locali. Mentre in Italia c’è chi ha tempo da impiegare per contare le settanta e più statue del Prato della Valle padovano e ha altrettanto tempo per accorgersi che manca una donna – anche l’immunologa Antonella Viola s’è sentita in dovere di aggiungere la sua voce alla politicamente corretta indignazione corale – Francesco diceva che “si va elaborando un pensiero unico costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va interpretata secondo l’ermeneutica dell’epoca”. Per essere più espliciti, se possibile, il Papa ha chiarito che la cancel culture “è una forma di colonizzazione ideologica che non lascia spazio alla libertà di espressione”; una colonizzazione “che invade tanti ambiti e istituzioni pubbliche”. “In nome della protezione delle diversità, si finisce per cancellare il senso di ogni identità, con il rischio di far tacere le posizioni che difendono un’idea rispettosa ed equilibrata delle varie sensibilità”.
Una presa di posizione che più razionale e sensata non si potrebbe, ma che apre questioni delicate. Identità e diversità sono concetti problematici, soprattutto in quest’epoca così vivace. Perché sovente, dal 2013 in poi, le parole del Papa sono state utilizzate come slogan proprio per rivendicare spazi e conquiste di libertà rispetto ai carnefici colonialisti occidentali che hanno schiacciato popoli e antiche civiltà, usando la storia pro causa propria e non di rado reinterpretandola secondo i canoni contemporanei. Si pensi solo ai numerosi e molto complessi discorsi tenuti dal 2013 in poi davanti ai movimenti popolari, incitati a darsi da fare per creare “un mondo di pace e giustizia”, invocando per loro posti “nelle strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune”. Francesco chiedeva di rivitalizzare la democrazia dal basso, anche a costo di “trascendere i procedimenti logici della democrazia formale”. Terreno fertile per la variegata e rumorosa galassia no global, degli Occupy Wall Street e di quanti declinano in modi non sempre sobri la celebre massima tierra-techo-trabajo. Non proprio un manifesto contro l’ideologia di chi vorrebbe riscrivere la storia risaltando la propria vera o presunta sottomissione durata secoli.