EPA/VATICAN MEDIA HANDOUT  

cicerone cestinato

Il latino è bello e pure utile. Ma a difenderlo si è subito etichettati come oscurantisti

Walter Brandmüller

Viviamo nell’epoca della globalizzazione e imponiamo un nazionalismo liturgico? Ode al latino

Che brutto colpo per l’arcivescovo! Che cosa gli toccava leggere? “Ti battezzo nel nome della patria, della figlia e dello Spirito Santo”, – in nomine patria et filia et spiritus sancti! Di fronte a una cosa del genere non resta altro da dire che “Amen”! Oppure si chiede al Papa che bisogna pensare di un simile battesimo. È proprio ciò che fece l’arcivescovo Bonifacio († 754), ed è per questo che tale straordinaria e imbarazzante testimonianza della storia culturale tedesca è stata tramandata.

 

È evidente che declino culturale e crisi della Chiesa sono collegati più strettamente di quanto si voglia pensare. Una cosa comunque è certa: a gettare le basi di un rinnovamento della Chiesa fu Carlo Magno con la sua rivoluzione culturale secolare – definita “rinascita carolingia” – alla quale ai tempi di Bonifacio nessuno avrebbe mai osato pensare. E Carlo Magno partì dal latino, per il quale, con il tipo di caratteri che prende il suo nome, ovvero  il minuscolo carolingio, creò una forma di scrittura ancora oggi efficace. Poi, però, con la dissoluzione dell’impero carolingio, iniziarono lentamente a svilupparsi le lingue nazionali europee. Ma ognuna di queste assimilò talmente tanto della grammatica e del vocabolario della lingua degli antichi romani, che un filologo del nostro tempo ha scritto sull’argomento un libro divertente e largamente diffuso intitolato Mutter Latein und ihre Töchter (ovvero madre latino e le sue figlie).

 

L’impresa epocale di Carlo Magno fece del latino un elemento decisivo per quella che oggi definiremmo integrazione europea. A partire da allora, il commerciante di Trondheim poté ordinare l’olio d’oliva in Sicilia, le stoffe a Firenze o le spezie orientali dagli intermediari a Venezia, e questo in latino! Nelle locande dei pellegrini sul Cammino di Santiago si poteva sentire una grande confusione di lingue e di voci, in mezzo alla quale la nota di fondo era data da un latino non proprio ciceroniano. Fu però soprattutto in un campo che il latino dimostrò la sua forza capace di travalicare confini e unire popoli: il mondo della scienza. Nelle università si parlava e si scriveva in latino. Una conseguenza di ciò fu che tutti potevano studiare o insegnare ovunque. Chiunque avesse conseguito il titolo di magister o di dottore  in un’università aveva, in virtù di privilegi papali, il diritto di insegnare in qualsiasi ateneo; e lo faceva nel luogo in quel momento più gradito o redditizio.

 

Era un sistema del quale quanti oggi sono stati danneggiati dal processo di Bologna possono solo sognare. E questo nel Medioevo, considerato un periodo tanto oscuro, dove evidentemente non c’era traccia “sotto i talari, di muffe secolari”. Tuttavia era nella Chiesa che la lingua degli antichi romani veniva parlata – e cantata (!) – nella maniera più pura e più bella. In tutto il mondo occidentale, dalla Sicilia alla Norvegia – in oriente si era conservato il greco dei Padri della Chiesa – la liturgia veniva celebrata in latino. Fu ancora Carlo Magno a richiedere ai Papi i libri liturgici e la raccolta di leggi del diritto ecclesiastico, introducendoli  in modo vincolante nel suo Impero. Con l’adozione del cantus romanus, ovvero del coro gregoriano, e la cura dello stesso, egli ci ha tramandato un tesoro ammirato dai grandi della storia della musica occidentale e capace ancora oggi di affascinare le persone. Lo testimonia la grande produzione di cd di questi canti eseguiti da monaci.

 

I Padri del Concilio Vaticano II hanno sottolineato espressamente due cose: il latino è la lingua liturgica del rito romano e il coro gregoriano è il suo canto liturgico proprio. La lingua nazionale, secondo il Concilio, poteva essere consentita per esempio per le letture bibliche e le preghiere di intercessione. Significativamente non si parlò di precetto, e nemmeno di  sacerdote all’altare rivolto verso i fedeli. Ben presto, però, le cose andarono in modo del tutto diverso e molti di coloro che prima, durante e dopo il Concilio avevano spezzato una lancia a favore di uno spazio per la lingua materna nella liturgia si ritrovarono nel ruolo dell’apprendista stregone incapace di liberarsi degli spiriti che lui stesso aveva evocato.

 

Subito accadde che chiunque osasse dire ancora una volta Dominus vobiscum si ritrovasse all’istante nel baule delle cose vecchie tra gli oscurantisti. Non era stata questa l’intenzione dei Padri conciliari! Fino al termine del Concilio loro avevano svolto le celebrazioni non solo in latino, ma addirittura secondo l’antico rito “lefebvriano”.  In breve tempo l’“illuminismo” del periodo postconciliare completò la sua marcia trionfale, che era iniziata già una volta, ben centocinquant’anni prima. Già all’epoca, negli anni in cui la Marsigliese era una grande hit, un parroco zelante aveva scritto nella prefazione del suo Liturgischer Versuch oder deutsches Ritual für katholische Kirchen (ovvero esperimento liturgico o rituale tedesco per chiese cattoliche), che ebbe ben tre ristampe, le seguenti frasi degne di nota: “Tutte le forme esteriori della religione… hanno l’intento generalmente necessario: arricchire la mente dei cristiani riuniti con nuove conoscenze della religione…”. Era questo, dunque, l’importante; per questo ogni parola doveva essere compresa, e perciò bisognava farla finita con il latino.

 

Il Gloria in excelsis Deo avrebbe ceduto al trionfo della banalità. Il teologo e vescovo bavarese Johann Michael Sailer invece, grande superatore dell’Illuminismo, la pensava in modo diverso. Per lui era evidente che l’essere umano non comprende solo con la ragione. La verità del Vangelo, la vicinanza e la misericordia di Dio – riteneva – trovano la via verso il cuore umano attraverso tutti i sensi: “Comprendere è bene, ma sentire dentro di sé, portare dentro di sé lo spino della verità compresa è meglio…”. Come ha detto il Piccolo Principe? “Si vede bene solo con il cuore” (Antoine de Saint-Exupéry). Ebbene, ai giorni nostri questa intuizione è di nuovo venuta meno. C’è stato un convegno internazionale, al quale ha partecipato anche l’autore di questo scritto. Naturalmente la domenica non poteva mancare la santa messa, cioè la celebrazione eucaristica. Ma con tanta internazionalità, in quale lingua? Fu trovata la soluzione geniale, ossia: in tutte le lingue dei partecipanti al convegno, una dopo l’altra. Fu una confusione babilonica delle lingue invece del miracolo della Pentecoste, che avrebbe permesso a tutti di pregare e cantare in una sola lingua… Eppure il latino sarebbe stata la soluzione più elegante, tanto più che i partecipanti al convegno erano tutti storici, teologi, che il latino lo avrebbero addirittura capito. Non sarebbe stato sufficiente fare le letture e le preghiere d’intercessione in più lingue? Nessuna delle nazioni e lingue rappresentate avrebbe potuto sentirsi svantaggiata e si sarebbe creato un senso di comunità trascendente i confini…

 

L’esclusività della lingua locale nella liturgia contiene invece un notevole potenziale di conflitto. Basti ricordare le regioni di confine, dove qua e là s’incontrano e si mescolano non solo due, ma anche più gruppi linguistici. Pensiamo all’Alta Slesia, dove s’incontrano la lingua polacca e quella tedesca!   Ricordiamo la celebrazione di riconciliazione fra tedeschi e polacchi nei giorni della caduta del muro di Berlino nel  castello polacco di Creisau (Krzyzowa). Con quale sforzo spasmodico si cercò, durante la santa messa, di leggere tanti testi in lingua tedesca quanti erano quelli in lingua polacca! Il latino, invece, avrebbe potuto davvero unire i popoli! Ma non è un caso isolato. Ungheresi e slovacchi, sloveni e austriaci, tedeschi e belgi, gli italiani in Alto Adige, e così via: tutti loro vivono insieme, qua è la, nella stessa parte di questo mondo, e quante volte la lingua nazionale degli uni è diventata strumento di oppressione degli altri! Il latino, invece, che trascende le nazioni e il tempo, possiede una forza capace di unire i popoli e creare comunione.

 

Esistono però anche altri buoni motivi per usare il latino nella liturgia. Per esempio, a scuola si parla in modo diverso rispetto al campo da calcio; a casa si parla in modo differente rispetto a come ci si esprime in pubblico! Così, anche la devozione a Dio, la messa, conosce un linguaggio proprio, distaccato dal quotidiano. Ciò vale per tutti gli ambiti culturali e tutte le religioni. Al cospetto di Dio, l’uomo, come un tempo Mosè, non si toglie solo le scarpe, ma parla anche in modo diverso da come fa con i suoi simili. Si sono così conservate forme linguistiche arcaiche, che ormai trovano spazio solo nel recinto sacro. Ed è proprio questo che secondo il Concilio Vaticano II per noi cristiani cattolici continua a essere la lingua degli antichi romani, cioè il latino.

 

Naturalmente si suscitano proteste quando si afferma che il tedesco è poco adatto come lingua liturgica, soprattutto quando, come prevede il Messale, viene abbinato a melodie gregoriane. Nel tedesco si ammassano le consonanti, il ritmo della parlata è spezzettato, e via dicendo. Quanto è più melodico e cantabile il latino, ricco di vocali, con il nobile ritmo del cursus classico! Allora forse il tedesco sarebbe meglio parlarlo, mentre per cantare abbiamo i nostri bei canti – e il canto gregoriano.

 

C’è dell’altro: le lingue moderne sono di breve durata. L’evoluzione della lingua addirittura ci fugge via. Basti pensare a internet o al tedesco degli sms. Chi si adegua all’oggi diventa ben presto “di ieri”, e molte parole e locuzioni familiari ai padri i figli e le figlie le cercano nel vocabolario delle parole straniere. La traduzione ufficiale tedesca della Sacra Scrittura, pubblicata nel 1980, appena trent’anni dopo fu sostituita con una nova versione, e anche il Messale pubblicato nel 1973 ha lasciato il posto a uno nuovo nel 2020. È una data di scadenza sorprendentemente breve. Non dovrebbe dare da pensare? Perlomeno i tesorieri delle chiese dovrebbero drizzare le antenne! Queste nuove edizioni uniscono molte forze e costano tanti milioni! 

 

Sarebbe opportuno riflettere! E così si potrebbe forse arrivare a un’idea che ebbero già i bisnonni. Loro disponevano di messali bilingui: a sinistra il testo latino, che veniva recitato e addirittura ben cantato, e a destra la traduzione nella lingua madre, che senz’altro non aveva grandi pretese letterarie, ma rendeva fedelmente la parola e il senso del testo latino. Dopo la prima pubblicazione nel 1884, per esempio, l’opera del benedettino tedesco  di Beuron Anselm Schott ebbe più di cinquanta ristampe. Per giunta, tutte contenevano anche spiegazioni sulla liturgia e le feste. In Italia, a seguito del motu proprio “Tra le sollecitudini” di san Pio X, il Movimento liturgico ricevette nuovo impulso. Si moltiplicarono le pubblicazioni e i sussidi a uso dei fedeli, al fine di attingere alla liturgia il vero spirito cristiano e promuovere la partecipazione. Figura eminente fu il benedettino Emmanuele Caronti (1882-1966). Egli curò numerose pubblicazioni per la partecipazione dei fedeli alla liturgia, in particolare  il Messale quotidiano (1929). Per il rito ambrosiano, i prelati G. Nogara e A. Bernareggi avevano curato il Messale quotidiano latino-italiano (1923). E i messali d’altare duravano più di cent’anni; se veniva introdotta una nuova festa bastava semplicemente aggiungere un foglio.  

 

E mi fermo qui! Vorrei aggiungere solo una cosa per concludere: non viviamo forse nell’epoca della globalizzazione? E al tempo stesso esercitiamo un nazionalismo liturgico? Allarghiamo il nostro orizzonte a un’ampiezza cattolica, ovvero che abbraccia il mondo e travalica i confini del tempo! Pax vobis!

 

Walter Brandmüller
*Presidente emerito del Pontificio comitato di Scienze storiche, è stato creato cardinale da Benedetto XVI nel 2010

Di più su questi argomenti: