Quel che resterà del viaggio del Papa in Iraq
Francesco non è un irenista e i tre giorni di pellegrinaggio lo dimostrano. Dialogo con l'islam incluso. Prossima tappa, il Libano
Ha parlato di barbarie e di terrorismo, ha ascoltato le testimonianze dei cristiani perseguitati. L'obiettivo è rendere possibile la convivenza in quelle terre. Una questione di puro realismo
Con l’islam si deve dialogare, anche rischiando, dice il Papa a bordo dell’aereo che lo stava riportando a Roma dopo il viaggio in Iraq. Rischiare, negoziando, pregando, riflettendo e correggendo, come capitato in segreto e per sei mesi prima di firmare il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza che ha poi portato alla stesura dell’enciclica Fratelli tutti. Lo impone la realtà vista a Mosul e Qaraqosh, le chiese sventrate e ridotte in macerie e spesso ricostruite anche con l’aiuto dei musulmani che lì abitano. Non a caso Francesco ha ricordato la testimonianza della donna il cui figlio fu ucciso da un colpo di mortaio e che ora ha parole di perdono per gli assassini. Il Papa non vive su un altro pianeta né è un irenista, come pure tante volte viene dipinto e raccontato. Più volte, tra Ur e la Piana di Ninive, ha parlato di barbarie e di terrorismo – anche quando il rigore diplomatico non lo prevedeva – segno che è consapevole di quanto è avvenuto lì e sa bene quali fossero le insegne dell’esercito nero del Male che marchiava con la “N” di nazareno le case dei cristiani.
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- Matteo Matzuzzi
Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.