Ritratto di John Henry Newman (foto Wikimedia Commons)

John Henry Newman, il santo romanziere

Luca F. Tuninetti

Il grande teologo inglese viene canonizzato oggi. Disse che “i santi non scrivono racconti”. Si era sbagliato

Domenica 13 ottobre, con la cerimonia di canonizzazione in San Pietro, la Chiesa proclamerà solennemente che il grande teologo inglese John Henry Newman si è sbagliato. Infatti, quando, una volta, venne a sapere che una pia signora lo aveva definito un “santo”, Newman (che fra le altre cose è l’autore di due romanzi) replicò: “Non ho nessuna tendenza a essere un santo, per quanto sia triste dirlo. I santi non sono uomini di lettere, non amano i classici, non scrivono racconti”. La Chiesa ci dice adesso che Newman si è sbagliato: ci può essere un santo che scrive romanzi. Ci può essere un santo che è un uomo colto.

 

Che Newman sia stato un uomo colto è qualcosa di cui non si può dubitare. Lo era per la sua formazione a Oxford, che gli aveva dato una straordinaria familiarità con i classici greci e latini, ma lo aveva fatto avvicinare anche alla matematica e alla geologia. Per fare posto ai suoi libri Newman dovette far ampliare la casa in cui abitava. Newman è stato un protagonista dei dibattiti teologici del suo tempo, ma seguiva con attenzione anche le vicende politiche dell’Inghilterra vittoriana. Suonava il violino e non poteva eseguire certi pezzi di Beethoven senza commuoversi. Si innamorò dei “Promessi sposi” e fu dispiaciuto, passando da Milano, di non riuscire ad incontrare Alessandro Manzoni.

 

Era consapevole che la sua vita non aveva avuto il tipo di eccezionalità (la “linea alta”) che s’attribuiva allora alle vite dei santi

Un aspetto che avvicina Newman a Manzoni, a parte la comune fede cristiana, è la straordinaria padronanza della lingua. Newman è considerato come uno dei più grandi scrittori inglesi del suo tempo e la sua abilità stilistica si esprime in una serie di scritti che coprono una quantità di generi diversi, dal trattato teologico o filosofico allo scritto polemico, alle omelie, agli studi storici fino alle poesie e, appunto, a quei romanzi che gli sembravano incompatibili con la qualifica a lui attribuita dalla sua entusiasta ammiratrice.

 

Nelle sue prediche Newman sottolinea che l’umiltà è un segno del vero seguace di Cristo. Quando Newman negava di essere un santo, però, la sua non era soltanto umiltà. Egli era consapevole che la sua vita non aveva avuto il tipo di eccezionalità (la “linea alta”) che si usava allora attribuire alle vite dei santi. Forse Newman condivideva in qualche modo lo stupore che possiamo avere pure noi pensando alla santità di un uomo colto come lui. Fra gli uomini e le donne che la Chiesa cattolica venera come santi ci sono persone di modestissima, per non dire di nessuna cultura, ma ci sono indubbiamente anche dei giganti del pensiero che meritano il posto loro assegnato nei libri di filosofia e di teologia. Quello che stupisce di Newman, però, è che egli è un uomo colto in un modo diverso da quello che poteva essere proprio di un sant’Agostino o di un san Tommaso: Newman è un uomo colto così come lo può essere un uomo moderno. 

 

La cultura di Newman è moderna. Ci appare come tale, fra le altre cose, perché egli è consapevole di vivere in un’epoca in cui le scienze e le arti non possono e non vogliono più essere viste come un sistema organico, ma si differenziano e si specializzano fino a diventare apparentemente incapaci di comunicare fra loro. In effetti Newman non è stato un uomo colto soltanto per la molteplicità dei suoi interessi, ma anche e soprattutto per il modo in cui quegli interessi diversi li ha vissuti e riuniti nella sua persona. Egli sembra aver realizzato innanzi tutto in sé stesso l’ideale di uomo colto che ha tratteggiato nel 1852 in una serie di conferenze che furono poi raccolte nel volume “L’Idea di Università”.

 

La sua cultura è moderna. Sa di vivere in un’epoca in cui le scienze e le arti non possono più essere viste come un sistema organico

Newman era stato chiamato a collaborare al progetto di fondare una università cattolica a Dublino e chiarisce quello che a suo modo di vedere deve essere l’obiettivo della formazione universitaria. Per lui l’università non serve innanzi tutto a preparare professionisti capaci di svolgere una determinata attività e non serve neppure a formare specialisti in grado di coltivare la ricerca scientifica in un certo ambito, ma deve mirare alla crescita intellettuale della persona, alla maturazione della sua capacità di ragionare e di giudicare, allo sviluppo dell’intelligenza fino al raggiungimento di un’eccellenza che non è limitata a un solo campo di indagine o di attività. Per indicare l’obiettivo dell’educazione universitaria di cui Newman parla ci verrebbe da dire che quella a cui lui mira è appunto la formazione di un uomo colto. Newman non usa la parola cultura in questo senso. Per lui culture non indica una condizione della persona, ma piuttosto quell’attività di coltivazione della mente che la porta a una condizione di pieno sviluppo. Da parte sua, Newman esprime l’obiettivo della formazione universitaria dicendo che essa deve “allargare la mente”.

 

Sapere molte cose può essere una condizione e forse anche una condizione necessaria della maturità intellettuale, ma per Newman non è certamente una condizione sufficiente. Egli illustra delle situazioni in cui l’incontro con una realtà sconosciuta, per esempio quando una persona arriva per la prima volta in una grande città, porta all’allargamento della mente. Quello che conta non è tanto l’acquisizione di nuove informazioni, quanto piuttosto il processo che tali informazioni attivano nella mente di chi le acquisisce. Per contro è evidente in altri casi che il possesso di molte informazioni non porta ad alcun allargamento della mente.

 

Un uomo colto deve certamente sapere molte cose, ma deve in qualche modo dominare quello che sa, esserne realmente padrone. Per questo, l’uomo colto deve sapere come sa quello che sa, deve distinguere quello che sa da quello che non sa, deve sapere come può cercare di imparare quello che non sa, deve vedere i rapporti che ci sono fra le varie cose che sa e deve sapere distinguere fra le cose che sa ciò che è più importante da ciò che è meno importante.

 

Come avviene praticamente l’allargamento della mente che, secondo Newman, l’università dovrebbe perseguire? La trasmissione di certi contenuti non è sufficiente. Newman arriva ad affermare che preferisce un’università dove non ci sono esami ma gli studenti vivono insieme piuttosto che un’università in cui gli studenti si incontrano soltanto per le lezioni e per gli esami. Mentre l’università di questo secondo tipo corrisponde alla allora relativamente giovane università di Londra (e, aggiungiamo noi, in generale alle università attuali), l’università del primo tipo ricorda l’antica Università di Oxford dalla quale sono usciti uomini eccellenti. La crescita di sé che una persona realizza nel rapporto con altre persone è sempre preferibile all’istruzione che pretende di riempire lo studente di nozioni.

 

Lo studio di alcune discipline aiuta però gli studenti a crescere intellettualmente. Newman afferma che fra le finalità della formazione universitaria vi deve essere innanzi tutto l’acquisizione di una sempre maggiore precisione nel pensiero che superi l’approssimazione che è invece una caratteristica dei giovani. Per arrivare ad avere quella visione unitaria del sapere che è l’obiettivo della formazione universitaria, gli insegnamenti fondamentali agli occhi di Newman sono quelli che aiutano a mettere ordine nel pensiero, a cominciare dalla grammatica e dalla matematica. Per avere una visione unitaria, bisogna pensare con ordine; e la matematica e la grammatica sono essenziali per insegnare ai giovani l’ordine del pensiero.

 

Dopo il “passo serio” che nel 1845 lo aveva portato nella Chiesa di Roma, il legame con san Filippo Neri divenne per lui decisivo

Un’altra parola che Newman usa per indicare l’obiettivo degli studi universitari è la parola gentleman. Chi è tale non è semplicemente una persona ben educata o gentile, ma un uomo intellettualmente maturo, un uomo colto, appunto, capace di vivere e di agire nella società del proprio tempo.

 

Newman sa bene che essere un uomo colto non è la stessa cosa che essere un buon cristiano. Egli si rende conto che le qualità che la società del suo tempo esalta non sono le virtù cristiane, anche se in certi casi possono assomigliare a quelle. La società vittoriana educa persone che si comportano bene non perché obbediscono alla loro coscienza, ma perché sarebbe di cattivo gusto comportarsi altrimenti. Questo tipo di educazione esalta l’orgoglio e non è capace di apprezzare l’umiltà.

 

Da questo punto di vista, può sembrare strano che in una pagina celebre dell’idea di università Newman proponga quello che appare come una sorta di panegirico del gentleman. Qualcuno ha affermato che le lodi di Newman vanno intese ironicamente, ma si può dire invece che egli realmente ammira il gentleman che è per lui un uomo che ha buone qualità e che contribuisce al benessere delle persone con cui vive. La difficoltà che Newman sembra avere a muoversi tra l’ammirazione per il gentleman e la scoperta dei suoi difetti dipende dal fatto che le qualità di cui parla sono vere qualità umane che in quanto tali non si oppongono al cristianesimo e si possono trovare anche in un santo, ma rischiano però di porsi come un ideale alternativo rispetto alla vocazione cristiana alla santità. L’uomo colto è sempre tentato di confondere la virtù con la cultura. La cultura non dà la virtù, ma può in certi casi nasconderne la mancanza.

 

I discorsi di Newman sull’università si concludono con un commosso ritratto di san Filippo Neri. Nella Roma del XVI secolo questo semplice sacerdote fiorentino con i suoi modi amabili e la sua personalità affascinante aveva saputo portare persone di ogni condizione a decidersi per una seria vita cristiana. San Filippo aveva raccolto alcuni confratelli in un’istituzione di un tipo nuovo, l’Oratorio, che proponeva momenti di istruzione religiosa aperti a tutti in cui anche il canto e la musica avevano un ruolo importante. Anche prima della sua conversione al cattolicesimo, Newman aveva ammirato l’“apostolo di Roma”. Dopo il “passo serio” che nel 1845 lo aveva portato nella Chiesa di Roma, il legame con san Filippo divenne per lui decisivo.

 

Si trattava di capire che forma doveva prendere la sua vita. Newman era stato ordinato nella Chiesa d’Inghilterra e non aveva dubbi sul fatto che desiderava diventare un prete della Chiesa cattolica. Tuttavia non era in questione soltanto il suo destino, ma anche quello di un gruppo di amici e discepoli che all’interno della Chiesa d’Inghilterra avevano condiviso con lui il cammino di riscoperta della tradizione cristiana e, prima o dopo di lui, erano poi entrati come lui nella Chiesa di Roma.

 

“A me basta lucidare le scarpe dei santi – sempre che san Filippo, in cielo, usi lucidare le scarpe”, scrisse in una lettera

Circa un anno dopo la sua conversione, nel novembre del 1846, Newman viene inviato a Roma per un periodo di formazione nel Collegio di Propaganda Fide. Il vescovo inglese Wiseman aveva suggerito che i convertiti costituissero un Oratorio sul modello proposto da san Filippo Neri. Nei primi mesi della sua residenza a Roma, Newman conosce diversi ordini religiosi e valuta se preferire la vita religiosa o la vita secolare. Già all’inizio dell’anno nuovo egli può annunciare a Wiseman la sua convinta adesione alla forma di vita oratoriana. Newman non si sentiva chiamato ad entrare in un ordine religioso, ma desiderava continuare l’esperienza di vita comunitaria che era stata tanto importante per lui anche prima della conversione. L’istituto dell’Oratorio gli appare come un deus ex machina. Gli oratoriani, infatti, non fanno voti religiosi, ma vivono in case indipendenti l’una dall’altra guidati da una regola. Un aspetto della vita oratoriana che Newman trova attraente è lo spazio che lascia allo studio personale, in una prospettiva, però, che non è quella di un’attività di insegnamento propriamente accademica, ma piuttosto di formazione del popolo cristiano che vive nelle città.

 

Newman pensa alle città dell’Inghilterra in fase di industrializzazione e in effetti andrà a stabilirsi con i suoi primi compagni a Birmingham, uno dei centri in cui in quegli anni si stava sviluppando la Rivoluzione industriale. Tra il 1851 e il 1858 Newman dovette viaggiare molto tra Birmingham e Dublino per lavorare alla fondazione della nascente Università cattolica, ma le resistenze incontrate lo convinsero infine a dimettersi dalla carica di Rettore e a ritornare stabilmente in Inghilterra. Il progetto di fondare un Oratorio a Oxford venne bloccato dalle trame di taluni cattolici influenti, timorosi che la persona di Newman avrebbe potuto attirare i giovani cattolici in quell’Università considerata ancora come pericolosamente vicina al protestantesimo e alla mentalità moderna. Gli scritti di Newman gli procurarono riconoscimenti in patria e anche fuori dell’Inghilterra, fino alla nomina cardinalizia nel 1879. Tuttavia Newman continuò a trascorrere il resto della sua lunga vita nell’Oratorio di Birmingham dedicandosi in particolare anche alla scuola da lui fondata. La sua familiarità con i classici gli permetteva fra l’altro di aiutare i ragazzi a mettere in scena le commedie di Terenzio o di Plauto da lui opportunamente adattate.

 

Come san Filippo Neri, Newman credeva alla attrattiva che ha la vita cristiana vissuta. Egli stesso però non osava paragonare la sua persona a quella di san Filippo. Nella lettera citata all’inizio, Newman, dopo aver detto che lui non è un santo, ma un uomo colto convinto che ammira le grandi cose che si vedono nella vita dei santi, conclude con una sfumatura di ironia: “A me basta lucidare le scarpe dei santi – sempre che san Filippo, in cielo, usi lucidare le scarpe”. Se in cielo vengano lucidate le scarpe non verrà probabilmente chiarito con la canonizzazione di Newman, ma questo non è così importante come la notizia che un uomo colto moderno può essere un santo.

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