Reagire ai fondamentalisti che in politica diffondono la paura del caos
Il manifesto della Civiltà Cattolica contro l’agenda gialloverde
Roma. Tornare a essere popolari. Sette parole per il 2019. Si intitola così il “punto” politico che il direttore della Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, ha firmato sull’ultimo numero della storica rivista dei gesuiti. Sette parole (paura, ordine, migrazioni, popolo, democrazia, partecipazione, lavoro) che fanno da cardine alla necessaria “reazione” in “questo tempo di cambiamenti e conflitti che ci sfidano”. Pare quasi un programma, se non di governo quantomeno elettorale, ma che merita di essere letto e studiato essendo la Civiltà Cattolica quanto di più vicino oggi ci sia al pensiero di Papa Francesco. Anche perché subito si chiarisce che “instillare la paura del caos è divenuta una strategia per il successo politico: si innalzano i toni della conflittualità, si esagera il disordine, si agitano gli animi della gente con la proiezione di scenari inquietanti”. Una retorica che “evoca forze potenti” e che senza mezzi termini viene definita “cultura fondamentalista”. Il riferimento implicito è a Donald Trump e agli altri protagonisti dell’internazionale populista, sui quali già tempo fa Spadaro aveva scritto. Superfluo, poi, aggiungere che con i dioscuri gialloverdi al potere l’affinità è prossima allo zero e che le sponde del Tevere da tempo immemore non erano così distanti l’una dall’altra. Le dichiarazioni ultime del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, sono chiare. La Civiltà Cattolica, poi, invoca un “nuovo ordine mediterraneo” e spiega che “è necessario lavorare all’integrazione” visto che “le migrazioni rischiano di essere il grimaldello per far saltare l’Europa”. Non proprio punti qualificanti del contratto su cui si regge il governo di Giuseppe Conte.
Se al di qua del Tevere c’è chi studia (di nuovo) la possibilità di far risorgere partiti di cattolici nell’idea che sia possibile riproporre esperienze storiche del passato – non considerando evidentemente che tutti i tentativi simili sono falliti –, dall’altra parte di Roma si bada di più al sodo: sette parole, appunto. Intanto la democrazia che “è la questione centrale oggi”. “La democrazia rappresentativa parlamentare è destinata a estinguersi?”, si domanda Spadaro. “Assolutamente no, ma la domanda di una ‘democrazia immediata’, della quale si immagina che la rete possa essere luogo di azione e strumento, sembra averla messa in difficoltà”. E però “non possiamo far finta che la rete non esista e dobbiamo prendere atto che il consenso si forma anche nell’ambiente digitale. Il disagio si esprime soprattutto lì”. Il problema, allora, diventa chiaro: “Come fare a vivere la rete come forma di partecipazione democratica senza cadere in scorciatoie demagogiche?”. Si vedrà.
Per reagire, sottolinea il direttore della Civiltà Cattolica, è necessario innanzitutto “riconnettersi con la società civile, con i ‘ceti popolari’, ricostruire la relazione naturale con il popolo”. Tornare – come da titolo – “a essere popolari”. Per farlo bisogna intendersi su cosa sia “popolo”, e qui l’accezione da intendere è quella del pueblo bergogliano, che non va confusa con le derive populiste, secondo le quali “la forza di una democrazia dipende dall’esistenza di un popolo relativamente omogeneo con un’identità precisa e riconoscibile fondata sulla coesione etnica”. Pericolosissimo: “Perché quando la comunità etnica si pone al di sopra della persona, non vi è più alcun baluardo al totalitarismo politico. Le tradizioni antiliberali costituiscono ponti ideologici per le attuali alleanze tra cristianesimo e forme aggressive di populismo”. Spadaro riconosce che “facciamo discorsi ragionevoli e illuminati, ma la gente è altrove” e il rischio è di “immaginare il popolo in forma di massa anonima”. Non è più tempo di discutere “al caldo dei caminetti degli illuminati”, è ora di scendere in campo.