Non c'è politica senza religione

Ubaldo Casotto

Perché il cristianesimo ha ancora molto da dire su Europa, giustizia, legge e potere (e di cosa ha bisogno per tornare a farlo davvero). La libertà secondo Benedetto XVI

Chiediamo un rinnovato impegno dei cattolici”. E’ il ripetuto appello del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente dei vescovi italiani. Un impegno per che cosa? Orientato da quali criteri? Con quali contenuti? In difesa di quali diritti? A chi volesse accoglierlo può essere utile compulsare “Liberare la libertà”, raccolta di discorsi su fede e politica di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI (Cantagalli). Ne raccomanda la lettura anche Papa Francesco, il quale in una argomentata prefazione parla “dell’immutata freschezza e vitalità del suo pensiero” e di testi che “possono aiutare non solo tutti noi a comprendere il nostro presente e a trovare un solido orientamento per il futuro, ma anche essere vera e propria fonte d’ispirazione per un’azione politica”.

 

Il difetto di questi libri, sia detto subito, non è in chi li scrive, ma in chi (non) li legge. ”Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur”, è inutile versare acqua in una bottiglia con il tappo. Ed è altrettanto inefficace sperare che una mentalità chiusa, ridotta o ingabbiata in categorie fisse possa recepire ciò che non è disposta o preparata ad accogliere. Questo libro aiuta ad “allargare” il recipiente. Altro difetto di questo libro è una dimenticanza: il discorso mai pronunciato, per via dell’opposizione di chi non aveva il coraggio di ascoltarlo (timore nascosto dietro una parola buona per tutte le stagioni: laicità), all’Università La Sapienza di Roma. Personalmente avrei aggiunto anche il discorso al mondo della cultura francese letto al College des Bernardins di Parigi, per via della convinzione che la politica è la forma più alta di carità (Paolo VI) e insieme la forma più compiuta di cultura (Luigi Giussani).

 

Cosciente di non sfuggire alla massima scolastica citata (ma senza un punto di vista non si vede nulla, basta dichiararlo con onestà) per invitare alla lettura di questi discorsi attraverso quello che ne ho capito io, partirei da quello al Bundestag. Il teologo Stefano Alberto (Università Cattolica) ne trae una definizione di “esperienza” che – dice sintetizzando – è l’incontro tra il cuore e il fatto. Non bastano il cuore e il fatto, occorre la loro correlazione, devo accorgermi della corrispondenza: il fatto, l’incontro, quella persona, quello sguardo che mi ridesta corrisponde al cuore, è quello che desidero. Cioè è la verità. Perché il criterio della verità è questa corrispondenza – “adaequatio rei et intellectus” direbbe Tommaso d’Aquino – tra, appunto, il fatto e il cuore. Nel campo della vita sociale, ciò di cui si occupa questo discorso, questa legge della verità si esprime come “impegno per la giustizia”. Il compito e la responsabilità del politico nel suo ruolo pubblico è l’impegno per la giustizia. Impegno che si esprime nel “creare le condizioni di fondo per la pace” e come “intelligenza del diritto”. E’ una questione di fondo della democrazia, nella quale – dice – non vale la legge della maggioranza.

A questo punto ci si aspetterebbe che un Papa, in virtù della dottrina di cui è custode, indicasse i paletti entro i quali muoversi, i principi dai quali non derogare nella ricerca del fondamento del diritto. Invece Benedetto XVI nel suo argomentare supera tutti in laicità. Dice infatti: “Ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento”. Che ogni persona, ogni generazione, nel suo momento storico, debba su questa materia come ricominciare dall’inizio è un punto fisso per Ratzinger, lo ripete in tutti i suoi discorsi sull’argomento.

Alla Sapienza, affrontando il tema in questione, si misura con Junger Habermas là dove dice che nel cercare il fondamento del diritto e della democrazia bisogna avviare un processo di argomentazione “sensibile alla verità” per giungere a una “forma ragionevole di diritto”. Nell’esperienza il “ragionevole” è un atteggiamento dell’uomo che si palesa con delle ragioni adeguate. Perché la natura dell’uomo è di avere la ragione, oppure – per dirla con Habermas – di essere “sensibile alla verità”. E la ragione – lo diceva anche Hegel – “esige l’esistenza della verità”. La natura, infatti, identifica sempre anche un compito. Sempre alla Sapienza Benedetto XVI si chiede poi: come l’università assolve il compito di trovare una forma ragionevole di diritto con argomenti sensibili alla verità? Risponde sorprendentemente così: “Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente”. Un Papa che non dice: si fa così e così, ma: è una domanda aperta. “Neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda, con l’inquietudine per la verità (…) che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta” che nell’arco dei secoli sia stata data.

 

E’ questo tipo di inquietudine che tiene desta la sensibilità alla verità. Più volte, sin dall’enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI ha insistito sul fatto che il lavoro per trovare il fondamento del diritto, e quindi della politica, non è dato una volta per tutte ma è il compito di ogni generazione.

 

Torniamo alla domanda iniziale di Berlino: come si riconosce ciò che è giusto? Benedetto XVI non dà una risposta teorica, bensì una risposta storica. O meglio, indica un criterio razionale che è stato introdotto nella storia non da un ragionamento ma da un fatto. E poi formula un giudizio sulla situazione attuale, cioè sulla condizione nella quale oggi quel compito – come si riconosce ciò che è giusto? – si deve esplicare.

 

Prima parte della risposta: la vera laicità ha un’origine religiosa. Laico perché cristiano. “Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso […] Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva”. Il loro incontro avviene, come si diceva, nell’esperienza. Di più: nella controversia tra religione e filosofia “è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione”.

 

“Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo la legge, sono legge a sé stessi. Essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza” (Rm, 2, 15 ss). Benedetto XVI dice che qui Paolo usa la parola “coscienza” nei termini di ragione aperta al linguaggio dell’essere. La natura si riverbera nella coscienza quindi “come legge non scritta”, come diritto naturale. Ratzinger sviluppa questo argomento in polemica con il positivismo giuridico, con la concezione, teorizzata da Kelsen, di una natura puramente funzionale che non ha nessun rapporto con l’etica e con il diritto. C’è la natura, c’è l’uomo, e tra i due non c’è ponte. Per Kelsen ciò che non è “verificabile” non rientra nell’ambito della ragione: etica e religione vengono relegate all’ambito soggettivo, alla decisione del soggetto. E il diritto, conseguentemente, viene consegnato alla determinazione della maggioranza. Vengono meno le fonti classiche del diritto citate: la natura e la ragione. La volontà del soggetto e della maggioranza stabilisce il diritto.

 

Questa – dice Ratzinger – è una concezione ridotta e autolimitante della ragione, che ha avuto effetti positivi però “non è sufficiente a essere uomini in tutta la sua ampiezza”.

 

Preme a Ratzinger che l’ambito della ragionevolezza non venga ridotto, che il razionale non sia identificato con il dimostrabile o il logico. Il problema della ragione non è il suo meccanismo ma la capacità di aderire alla realtà e di trarre da essa suggerimenti.

 

Ora, di fronte alla riduzione della natura a mero dato funzionale (e quindi manipolabile), di fronte alla riduzione della ragione a gabbia in cui incasellare tutto (misura delle cose) di fronte alla riduzione della coscienza a solitudine egocentrica (luogo dove uno parla a se stesso e non in cui ascolta la voce di un altro cioè incontra riflessivamente la realtà) Ratzinger non dà una risposta dogmatica ma metodologica: bisogna tornare a spalancare le finestre della ragione dobbiamo di nuovo vedere la vastità del mondo. Non dice “dobbiamo tornare a ragionare bene”, parla di un bunker senza finestre nel quale ci siamo rinchiusi. Non dobbiamo cercare di ragionare meglio dentro il bunker, dobbiamo uscire dal bunker. “Dobbiamo – si sono sentiti dire i parlamentari tedeschi – di nuovo vedere la vastità del mondo, il cielo e la terra e imparare a usare tutto questo in modo giusto”. È in questo passaggio che, a sorpresa, cita gli ambientalisti. Il movimento ecologista – dice – ci ha ridestato questa esigenza. “Pur non avendo forse spalancato le finestre (segnala una promessa mancata, un’esigenza giusta alla quale si è data una risposta parziale) però sono stato un grido che anela all’aria fresca (…) che la terra porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo inseguire le sue indicazioni […] nel nostro rapporto con la realtà c’è qualcosa che non va”. Un’apertura simile la coglie anche nel positivista Kelsen quando questi abbandona il dualismo fra essere e dover essere e si chiede se, essendo il diritto solo frutto della volontà, ci sia una volontà divina che ha inserito il diritto nella natura. Poi Kelsen decide che non ha senso occuparsi di ciò, Benedetto XVI ribadisce invece che forse è la questione della quale ha più senso occuparsi.

 

C’è una singolare eterogenesi dei fini per cui il laicista si fa fideista mentre l’uomo religioso è realista e razionale.

 

La dialettica ragione-diritto-verità a livello della vita pubblica e della politica pone di fronte al problema di Cesare e di Dio. E’ la questione di fondo con cui Benedetto XVI si confronta al Bundestag, come già a Ratisbona e a Westminster. In un’omelia del tempo di Natale lo definisce così: è il problema “della politicizzazione della religione, della deificazione del potere temporale e della instancabile ricerca della ricchezza”. Nella risposta di Gesù alla domanda tranello dei farisei – aggiunge – c’è il fondamento della libertà religiosa, perché “i cristiani danno a Cesare soltanto quel che è di Cesare (si vedano i testi sull’impegno per la giustizia), ma non ciò che appartiene a Dio, e ciò avviene perché sono liberi dai legami dell’ideologia”.

 

Per capire come il discorso al Bundestag affronti il diritto alla libertà religiosa è utile riprendere la lezione che il professor Joseph Weiler tenne all’Università Cattolica il 13 giugno 2012. Per Weiler va letto insieme al discorso di Ratisbona, dove Benedetto XVI ripresenta la posizione cattolica su “Cesare e Dio, Stato e Chiesa, comunità religiosa nello Stato moderno pluralista”. A Ratisbona con il raffinato e autoironico esempio sulle “due facoltà che si occupano di una cosa che non esiste, cioè Dio” (come disse un collega dell’allora professor Ratzinger sull’insegnamento della Teologia sia nell’università cattolica sia in quella statale) Benedetto XVI fonda il diritto alla libertà religiosa accettando l’ipotesi che Dio non esista. Parlando di un diritto fondamentale quale la libertà religiosa, non si ferma solo sulla pur giusta rivendicazione della libertà di espressione della propria fede, di cui trattò ampiamente nel discorso all’Onu del 2008 e oggi di nuovo così tragicamente di attualità, ma dice della possibilità di dire no a Dio. “La libertà religiosa – commenta Weiler – è anche libertà dalla religione”. Secondo Weiler la spiegazione più profonda di questo apparentemente sorprendente atteggiamento di Benedetto XVI è una spiegazione religiosa: Dio non accetta una professione religiosa non libera, il sì a Dio ha significato solo se totalmente volontario. D’altronde – diceva Cervantes nel Don Chisciotte – “la libertà è uno dei doni più preziosi che i cieli hanno dato agli uomini”. Un’adesione non libera a Dio non sarebbe pienamente umana, cioè ragionevole.

 

Per Benedetto XVI questo vuol dire che in uno Stato moderno e democratico la maggioranza, anche qualora fosse di credenti, non può fare delle leggi religiosamente coercitive. È questo il significato della citazione del Paleologo, tanto travisata quanto strumentalizzata, che a commento della Sura “Nessuna costrizione nelle cose di fede” a Ratisbona gli fece dire: “Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”.

 

Ed è per questo – commenta Weiler – che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno detto che la libertà religiosa è la più fondamentale delle libertà. E lo può capire anche un ateo, perché è una posizione che difende anche il suo no.

 

L’affermazione di Benedetto XVI ha, per Weiler, un’altra conseguenza: il cristianesimo (un fatto storico) introduce (riconosce) il legame tra logos ed ethos, tra ragione e moralità. Una cosa è proibita non perché lo dice Dio, ma perché è immorale, perché non corrisponde alla ragione, alla legge naturale, al diritto naturale. E’ una rivoluzione per il pensiero religioso, la rivoluzione descritta dal passaggio della lettera ai Romani già citato: i pagani “per natura” agiscono secondo la legge, sono legge a sé stessi. E’ un concetto di giustizia che i greci possono capire e che gli ebrei hanno nella loro tradizione.

 

Ratzinger a Berlino cita l’Antico Testamento, il re Salomone; Weiler in Cattolica cita Sodoma e Gomorra: Abramo che sfida Dio sulla giustizia. O meglio, l’esame a cui Dio sottopone Abramo per vedere se è degno di guidare il popolo e amministrare la giustizia. Abramo contesta a Dio che non può fare una cosa ingiusta, perché anche Dio è sottomesso alla giustizia. Anche la democrazia – dice Benedetto XVI – è sottomessa alla giustizia. E la giustizia fa parte della natura umana, è nel ragionamento. Non è Dio – spiega Weiler – che ha insegnato ad Abramo che non si uccide l’innocente con il colpevole, Abramo lo sa da sé perché ragiona. Innocenti e colpevoli: nella prefazione a “Esperienza elementare e diritto” (di Marta Cartabia e Andrea Simoncini), Julián Carron cita il filosofo Paolo Rossi: “Non me ne importa niente della prova dell’esistenza di Dio. Però, come Monod, ho questo sasso sullo stomaco: non accetto volentieri l’idea che il carnefice e la vittima scompaiano insieme nel nulla”. Questa – commenta– è l’obiezione che il positivismo giuridico trionfante non sa risolvere. L’esigenza di giustizia che è in noi non fa sconti a nessuna ideologia ed è l’ostacolo insuperabile di fronte a ogni volontà di potenza.

 

Tutto ciò implica – deduce Ratzinger – che la tradizione religiosa che ha sviluppato questa concezione della giustizia e della dignità di ogni uomo entri a pieno titolo nel discorso pubblico. La religione non è relegata né relegabile alla sfera privata, proprio perché accetta il test della ragione. Nel dibattito pubblico sulla giustizia (il fine della politica), quindi, la voce religiosa deve essere presente. Benedetto XVI rivendica apertamente il diritto della religione di stare nell’Agorà. Nel discorso a Westminster, prendendo ad esempio san Tommaso Moro, affronta il problema di come porre limiti all’esercizio del potere, che è la stessa cosa del chiedersi che cosa sia di Cesare e che cosa di Dio, che cosa Cesare possa legittimamente imporre ai suoi sudditi, o uno stato ai suoi cittadini. Insomma, quale fondamento abbia la democrazia, quale giustificazione etica abbiano le scelte politiche, non la conformità delle scelte politiche a una norma, ma il loro essere secondo natura e ragione.

 

A Westminster ribadisce che “le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione prescindendo dal contenuto della rivelazione”. Allora il ruolo della religione nel dibattito politico non è quello di fornire le norme, né di proporre soluzioni politiche concrete, ma di aiutare nel purificare la ragione (fa l’esempio dell’abolizione della schiavitù). Tra ragione e religione c’è un rapporto biunivoco – dice – la prima senza la seconda decade in ideologia e applicata in modo parziale non tiene conto della dignità della persona umana. La religione senza la ragione, invece, cade nel fondamentalismo.

 

Se così stanno le cose – conclude – per i legislatori la religione non è un problema da risolvere, ma una risorsa. E questo (discorso alla Sapienza) è un dato storico. Persino John Rawls, il filosofo che nega carattere di ragione pubblica alle dottrine religiose, ammette che hanno dalla loro, nel tempo, “argomentazioni sufficientemente buone a loro sostegno”. Si riconosce così che “l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza”, un “tesoro di conoscenza e di esperienza etiche importante per l’intera umanità”.

 

Il discorso di Berlino si chiude con la sottolineatura della decisività del cristianesimo per il patrimonio culturale dell’Europa. Lo aveva già detto a Ratisbona, definendo non reversibile la sintesi tra ellenismo e cristianesimo compiuta nella Chiesa antica e che invece i sostenitori della necessità di nuove inculturazioni mettono in discussione. Quelle prese allora per Ratzinger furono “decisioni di fondo che riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, e che fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura”.

 

Ed ecco la conclusione: “Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire”. Questa è la nostra “memoria culturale”, “derivante dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei greci e il pensiero giuridico di Roma […] questo incontro ha fissato i criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico”. Da che cosa è segnato “questo momento storico”? E’ la seconda parte della risposta alla domanda: come si riconosce ciò che è giusto? Che cosa fosse giusto per i combattenti della resistenza contro il nazismo – dice – era evidente. “oggi, di fronte alle fondamentali questioni antropologiche quale sia la cosa giusta tale da diventare diritto vigente non è affatto evidente di per sé”.

 

Noi viviamo in un’epoca in cui, per la prima volta dopo l’avvento del cristianesimo le evidenze elementari non sono più evidenti. “Avete visto sorgere un mondo dopo Gesù senza Gesù, voi siete i primi dei moderni” (Péguy). Un’epoca in cui il diritto positivo, come ai tempi dell’impero romano, cioè la volontà del potere, pretende di determinare chi è persona e chi non lo è. Viviamo in un tempo, è questa la novità che facciamo fatica ad ammettere, in cui non c’è più nessuna evidenza. Le grandi convinzioni eredità di quell’incontro tra Atene, Gerusalemme e Roma, di quella sintesi tra ragione e cristianesimo, su cui è andata avanti una società in cui convivevano credenti e non credenti, non hanno più forza di motivazione per il vivere. Il tentativo di fondarle laicamente operato dall’illuminismo e da Kant è fallito.

 

Ora, Benedetto XVI non auspica il ritorno a un diritto naturale consistente in una serie di norme, ma ne rilancia il focus: la persona, il soggetto, il cuore (ragione e libertà) dell’uomo. Il diritto naturale viene considerato oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare – dice – una serie di enunciati fissati per sempre. Ratzinger non li disconosce, dice che vanno riconquistati e rivissuti in un nuovo inizio, sempre, non grazie all’automatismo di una comunicazione fatta e servita pronta per l’uso, ma attraverso il lavoro di un “cuore docile”. Salomone, citato a Berlino, non chiede a Dio: detta che io eseguo. Ma: “Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al popolo e sappia distinguere il bene dal male”.

 

L’appello all’apertura del cuore, come lo “spalancate le porte!” di Wojtyla, è identico in Papa Francesco. Il 27 marzo 2014 parlando ai politici italiani fece la distinzione tra l’essere peccatori e l’essere corrotti: la corruzione – disse – è una degenerazione del cuore, è la chiusura del cuore, il tradimento della sua natura. Parlando della classe dirigente di Israele al tempo di Gesù la definiva “chiusa nelle sue idee”. L’alternativa? “Fare lo sforzo di aprirci: Dio soltanto questo ci chiede: ‘Aprite la porta’ […] ‘Ritornate a me con tutto il cuore’”.

 

La riscossa davanti alla mancanza delle evidenze elementari è nell’irruzione dell’io, della persona, esattamente come con l’arrivo dei cristiani nella Roma imperiale del primo secolo. E non c’è niente di più laico. Noi siamo laici – dice Ratzinger in un libro del 2004 sugli Stati Uniti (“Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam”) – per amore della religione, non nonostante il nostro cristianesimo ma proprio a causa della nostra religione. Alla base della società americana – osserva – c’è una separazione netta tra stato e Chiesa voluta dalla religione. Quei cristiani fuggivano dal sistema di chiese di stato e hanno quindi operato una separazione positiva diversa dalla laicità nata dalla rivoluzione francese. Ne è conseguito che ciò è che non è statale non è escluso dalla dimensione pubblica, anzi, è incoraggiato e il sistema fiscale lo favorisce.

 

Alla base della “Dignitatis Humanae”, la dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa – dice Ratzinger – c’è l’influenza dei vescovi americani e di questa “esperienza della non statalità della Chiesa come una forma cristiana emergente della natura stessa della Chiesa”.

 

Allora, il compito oggi, per i cristiani che si impegnano in politica, è nel felice titolo di questa raccolta “Liberare la libertà”: affermare questa libertà positiva. Come questa libertà implichi i concetti di sussidiarietà, di protagonismo sociale, di corpi intermedi, di rapporto con le istituzioni richiederebbe altre parole oltre alle tante che già ho usato.

 

I cristiani non hanno ricette politiche se non questo impegno con la loro umanità fatta di ragione libertà e storia. Sono, siamo, uomini a cui il passato consegna una ricchezza che è a rischio di nostalgia inutile se non origina una novità nel presente. Se saremo leali con quel dato della realtà che è la nostra natura di uomini – dice Chesterton – potranno pur dirci che non abbiamo ragione, ma non potranno accusarci di non avere la ragione.

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