E’ durato una settimana il viaggio apostolico di Papa Francesco in Cile e Perù, il ventiduesimo dall’inizio del Pontificato (foto LaPresse)

Il Papa non è più pop. Cronaca di un pontificato che si è incartato

Matteo Matzuzzi

Il mondo che tanto aveva sostenuto la rivoluzione di Francesco ora gli volta le spalle. Dalla caccia alle streghe sulla pedofilia allo stallo delle riforme finanziarie, la stagione callejera inizia a dare segni di stanchezza

Roma. Stavolta non è stato uno dei “cospiratori”, uno di quelli che per dirla con l’arcivescovo argentino Víctor Manuel Fernández, teologo tra i più ascoltati da Francesco, ragionano e parlano come se Jorge Mario Bergoglio non fosse stato eletto al Soglio di Pietro per rispettare “il disegno di Dio” (copyright del cardinale Oscar Maradiaga, coordinatore del Consiglio della corona che da cinque anni studia e ragiona sulla riforma della curia). L’official statement, la dichiarazione ufficiale pubblicata sul sito dell’arcidiocesi di Boston contro le parole del Papa che aveva difeso a spada tratta il vescovo Juan Barros, accusato – senza prova alcuna, come ha ribadito più volte il Papa durante la conferenza stampa in aereo a conclusione del viaggio apostolico in America latina – d’aver partecipato agli abusi praticati su minori dal suo mentore, padre Fernando Karadima, è scritto da Sean Patrick O’Malley, cardinale cappuccino che proprio Francesco ha voluto alla guida della Pontificia commissione per la tutela dei minori. Che O’Malley, rettore della diocesi di Spotlight, non potesse condividere il todas calumnias pronunciato davanti alle telecamere da Francesco, era abbastanza chiaro. Che decidesse di rendere nota una dichiarazione a mezzo stampa, è ben altra faccenda. Il Pontefice ha ammesso di aver esagerato nei toni, chiedendo alle vittime “le prove” degli abusi coperti da Barros, aggiungendo che la dichiarazione di O’Malley è giusta. Ma non arretra di un millimetro: nemo malus sine probetur, non c’è il delitto se questo non viene provato. E però poco cambia, ormai il fronte ulteriore nell’incedere del pontificato s’è aperto, e stavolta non sono virili dispute sulla comunione da dare o no ai divorziati risposati, sul sacramento più o meno svilito o sulla morale famigliare.

 

E’ di nuovo la pedofilia, la caccia alle streghe che aveva logorato l’ultima fase del pontificato ratzingeriano, con improbabili mandati di comparizione spediti in Vaticano per il vescovo di Roma, a scuotere la Barca che pare barcollare in marosi sempre più agitati.

 

Francesco, che tra i punti qualificanti dell’agenda aveva la “tolleranza zero” contro i preti rei d’aver abusato di minori e allo scopo aveva creato una commissione ad hoc al cui interno erano presenti vittime con licenza di denunciare a mezzo stampa le lentezze del Vaticano nel purificare la chiesa e nell’indicare cardinali e vescovi ostili a indossare le vesti degli inquisitori giacobini, ha sbottato. Se l’è presa pubblicamente con chi ha contestato una sua nomina (Barros) ribadendo che è lui e lui solo a decidere e che non vuole sentire chiacchiere o pettegolezzi, ché sono roba “da terroristi”. ¿Está claro? aveva poi detto troncando la conversazione con i giornalisti che gli esponevano le presunte e mai documentate malefatte criminali del vescovo di Osorno.

 

C’è la sensazione che Francesco, assai più del predecessore, si senta accerchiato, assediato dalle stesse armi che avevano stretto la morsa attorno alla stagione di Benedetto XVI. I pontificati non s’incartano nelle strade semivuote di Santiago del Cile dove più che folle festanti si vedevano i portoni anneriti delle chiese date alle fiamme. I pontificati vanno in crisi a Roma, nei corridoi dei Palazzi apostolici pieni di spifferi, di serpenti pronti a sibiliare e di ostacoli spesso invisibili ma decisivi nello scoraggiare ogni tentativo di superarli. Il pontificato fa sentire tutti gli acciacchi e le sofferenze, le tensioni e le tossine incubate da mane a sera. Declina, prima o poi. In un altro mondo, con i reporter che contavano i singhiozzi di Pio XII, cercando nel ritmo della respirazione di Papa Pacelli qualche segno che indicasse un declino fisico irreversibile. O, più di recente, con le telecamere che indugiano sul calvario di Giovanni Paolo II, il Papa sportivo benedicente senza voce dalla sua finestra. E poi Paolo VI, che il Golgota lo scalò per dieci anni, gli ultimi del suo pontificato, travolto dall’insurrezione di manipoli di vescovi ribelli che si ritenevano delusi da come Montini aveva condotto in porto la Barca nelle agitate acque conciliari. Assediato nella cittadella, pur nella sua ieraticità mostrata fino in fondo.

 


Papa Francesco con gli indigeni a Puerto Maldonado, in Perù (LaPresse)


 

Quarant’anni dopo, il Papa non dimora più tra i fasti dei palazzi, in quell’appartamento da lui definito “un imbuto rovesciato” che rendeva l’aria soffocante, che imbrigliava l’energia che Jorge Mario Bergoglio voleva dare a una chiesa che aveva visto logorarsi durante il pontificato ratzingeriano, tra corvi che planavano sulle scrivanie del Papa rubandogli i documenti e donandoli a giornalisti e romanzieri, scandali a orologeria, derive trash e una gestione pasticciata della Segreteria di stato, che si dimenticava di segnalare al Pontefice le teorie negazioniste di vescovi scomunicati e misericordiosamente riammessi in seno alla madre chiesa. Pulizia, trasparenza, ventate d’aria fresca e pura: ecco le parole chiave che precedettero il Conclave del 2013, con la pioggia che batteva Roma, i gabbiani appollaiati sul comignolo della Sistina in attesa della fumata bianca e il vecchio Papa salito sul monte che silenziosamente tutto guardava seduto davanti a un televisore. “Un manager, abbiamo eletto un manager”, diceva il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York e capofila del gruppo degli americani che voleva una netta cesura con il modus operandi di Tarcisio Bertone che dallo Ior in giù tanti problemi, secondo il j’accuse generale, aveva determinato. Riforme e ancora riforme, si chiedeva a gran voce, sia dal fronte conservatore sia da quello progressista. 

 

L’attivissimo cardinale Oscar Rodríguez Maradiaga, arcivescovo salesiano di Tegucigalpa, già presidente di Caritas internationalis, snocciolava a taccuini aperti e microfoni accesi i cahiers de doléances dei cardinali estranei agli intrighi romani e sciorinava l’elenco delle cose da fare, sottolineando (lui come altri) che prima di tutto bisognava “mettere ordine in casa”, come disse il cardinale Francis George, capostipite riconosciuto del conservatorismo muscolare statunitense che confessò poco prima di morire di avere un solo desiderio: arrivare fino a Roma per domandare al Papa che cosa davvero volesse fare della chiesa. Una casa, si osservava da ogni parte, che sarebbe dovuta diventare trasparente. Nelle congregazioni del pre Conclave, eminenze stimate (Christoph Schönborn, ad esempio) si spingevano a domandare la chiusura dello Ior, considerato il ricettacolo di tutti gli scandali e del malaffare petrino.

 


Il Papa con i bambini durante una tappa della visita in Perù (LaPresse)


 

Francesco, una volta eletto, metteva in pratica il programma. Primo: trasferimento del domicilio in albergo, aperto al contatto con la gente. Niente più soluzioni “rinascimentali e principesche”. Secondo: istituzione del C8 (che poi diverrà C9 quando si deciderà di aggiungere al tavolo un posto per il segretario di stato, giacché sarebbe stato assurdo che il primo ministro del Papa non fosse incluso nel gran consiglio), una speciale consulta di cardinali consiglieri costituita da nove porporati presi qua e là e rappresentativi delle chiese locali. L’incarico, si spiegò dalla Santa Sede, era finalizzato a consigliare il Papa circa il governo della chiesa universale e – soprattutto – a elaborare la madre di tutte le riforme, quella della curia romana, della governance. Riunioni ogni tre mesi, audizioni a vescovi e monsignori, esame punto per punto delle funzioni dei vari dicasteri vaticani. Maradiaga disse che bisognava rendere la struttura “più agile”, che c’erano troppi uffici e che quindi andavano ridotti. Cinque anni dopo, nonostante le riunioni procedano, il risultato è l’accorpamento di qualche pontificio consiglio, l’istituzione di una Segreteria per la comunicazione e poco altro. Della costituzione che avrebbe mandato in archivio la riforma magna di Paolo VI poi ritoccata da Giovanni Paolo II, non s’è vista ancora nemmeno una riga.

 

E poi l’economia: nei primi mesi arrivarono motu proprio, chirografi papali che istituivano commissioni e sottocommissioni incaricate di aggiornare ritoccare ed eliminare scrivanie e organismi. Francesco dava subito seguito ai desiderata espressi nella Sede vacante, chiamando a Roma l’energico cardinale australiano George Pell, incaricato di rendere trasparente il palazzo mettendo il naso in tutti quei dossier fino a quel momento considerati off limits per gli estranei alla cerchia romana. E infatti subito finivano sui giornali verbali di riunioni cardinalizie in cui si definiva l’opera di Pell una sorta di “sovietizzazione”, con il cardinale Jean-Louis Tauran che riteneva sbagliato che uno facesse “tutto” e gli “altri niente”, mentre il cardinale Giovanni Battista Re, già prefetto della congregazione per i Vescovi vedeva nell’istituzione del nuovo dicastero un qualcosa di “pericoloso”. L’irritazione nei confronti di Pell cresceva, lui comunicava con la curia attraverso la posta elettronica, un modus operandi non di casa al di là del Tevere. All’inizio, Francesco diede corda al porporato australiano, sostenendolo e confermando l’impegno per la pulizia, anche quando i bilanci fino a quel momento secretati venivano sciorinati in conferenze stampa ed esposti, ça va sans dire, al pubblico ludibrio. Intanto, accuse vecchie di decenni costringevano Pell a tornare in patria per difendersi nel processo riguardante presunti abusi sessuali su minori, il Revisore generale – altro pilastro della lustracija finanziaria vaticana – veniva allontanato senza troppi complimenti e il vicedirettore generale dello Ior, Giulio Mattietti, veniva accompagnato alla porta. In pochi mesi, la struttura messa in piedi per dare corso a quella grande riforma teorizzata nei primi giorni dopo l’elezione di Francesco si sbriciolava come un castello di sabbia. La Segreteria per l’Economia è vacante, un corpaccione senza testa e senza guida privato dei poteri che aveva in origine. Il Revisore generale non c’è e la Segreteria di stato ha progressivamente riconquistato campo e capacità di manovra. Curioso, se si considera che fu proprio la Segreteria di stato allora a guida Bertone a essere messa sul banco dagli imputati nel pre Conclave.

 


In primo piano il vescovo di Osorno, mons. Juan Barros. Sullo sfondo, il Papa (LaPresse)


 

Si è tornati, in sostanza, allo status quo ante, seppur reso più presentabile dai rapporti sulla trasparenza migliorata e l’allineamento agli standard bancari internazionali. Ma il Caterpillar che doveva rifondare tutto si è rovesciato. Lasciando vistose macchie d’olio dietro di sé, visto che il Revisore generale licenziato, Libero Milone, nel frattempo convocava i giornalisti per dire di essere stato minacciato e costretto a dimettersi dal sostituto della Segreteria di stato, mons. Becciu, che per tutta risposta faceva sapere alla stampa che “Milone ci spiava”. Il Revisore generale deposto chiamava in causa il Papa, facendo intendere che Francesco è una sorta di marionetta manovrata da una cerchia di consiglieri – magari coloro i quali hanno allestito il matrimonio in aereo tra due assistenti di volo cileni, talmente estemporaneo da essere stato annunciato dagli stessi un mese prima a un giornale locale – determinata a far seguire alla Barca petrina una rotta ben determinata. Una rotta che porta all’abbraccio con il mondo che nella chiesa di Roma e nella sua auctoritas ha sempre visto tutto il peggio, un accrocchio di potere e segreti degno dei romanzi di Dan Brown. Bergoglio reagiva, pochi giorni prima di Natale, nel consueto messaggio augurale alla curia, additando i “traditori di fiducia” e gli “approfittatori della maternità della chiesa, ossia le persone che vengono selezionate accuratamente per dare maggior vigore al corpo e alla riforma, ma – non comprendendo l’elevatezza della loro responsabilità – si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria e, quando vengono delicatamente allontanate, si autodichiarano erroneamente martiri del sistema, del ‘Papa non informato’, della ‘vecchia guardia’…, invece di recitare il ‘mea culpa’. Accanto a queste persone ve ne sono poi altre che ancora operano nella Curia, alle quali si dà tutto il tempo per riprendere la giusta via, nella speranza che trovino nella pazienza della chiesa un’opportunità per convertirsi e non per approfittarsene”. Se le cose stanno così, “allora è difficile considerare Francesco un grande riformatore”, scriveva il vaticanista americano John Allen: “Ha lanciato un Consiglio per l’economia per impostare una linea politica, un Segretariato per l’economia per attuarla e un Revisore generale indipendente. Oggi, il Segretariato e l’ufficio del Revisore sono alla deriva, mentre il vero potere sulle finanze vaticane è tornato in capo alla Segreteria di stato, il bastione della ‘vecchia guardia’”.

 

Ma poi bisogna vedere anche altro, lasciare perdere la riforma delle strutture e andare al sodo, alla rievangelizzazione di un mondo che vive come se Dio non esistesse, soprattutto l’occidente stanco e appagato. Un cardinale, all’indomani del Conclave, diceva che ora le cose sarebbero cambiate, che Bergoglio aveva il pregio di parlare chiaro e semplice. E in effetti, il plauso corale fu totale: piazze piene, folle esultanti e commozione generale per il Papa che va in giro con le scarpe nere ortopediche e indossa i pantaloni neri e non quelli bianchi. Semplicità e frugalità per il Papa dei poveri e degli ultimi che alla Casa Bianca arrivò a bordo di una Fiat 500 L per ribadire l’idiosincrasia per fasti, ricchezze, cortei e fanfare. Il Papa pop dei selfie, le riviste che gli dedicano copertine, settimanali stampati ad hoc che spiegano i gesti quotidiani di Francesco. E’ l’idillio, qualcuno si sbilancia e dice che è l’uomo che salverà la chiesa. E che la salverà proprio grazie all’ascolto dello Zeitgeist, dello spirito del tempo. L’amore del circolo mediatico mainstream è così sincero che gli slanci bergogliani vengono usati per fare del Papa il personaggio perfetto da sbattere sulla copertina della rivista gay Advocate, che lo elesse nel 2013 personaggio dell’anno. Il Papa del “chi sono io per giudicare?” – la frase era ben più complessa, “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?” – era il testimonial perfetto.

 

E pazienza per tutto quel che Jorge Mario Bergoglio sul tema aveva detto, tuonando contro le “lobby gay”, difendendo il matrimonio tra uomo e donna, definendo il “gender uno sbaglio della mente umana”, la “espressione di una frustrazione e di una rassegnazione”. Tutto cancellato nella narrazione consona a sostenere l’immagine del Papa ultraprogressista che piace al mondo. La liaison però non è stata eterna, ed è bastato ritrovare il vecchio grimaldello della pedofilia per mettere alla berlina Francesco, accusandolo di deludere le vittime degli abusi, di non ascoltare le loro richieste finalizzate a rimuovere vescovi e preti. Così, in men che non si dica, delle campagne contro le metrature degli appartamenti cardinalizi e delle docce sotto il colonnato petrino fatte installare per i clochard, è rimasto ben poco. Il Papa del chi sono io per giudicare è così diventato sì quello che giudica ma che giudica male perché al mondo che tanto piaceva non ha dato più corda; è diventato il Papa che ora viene messo a confronto con Benedetto XVI circa il riempimento delle piazze e perfino rispetto allo share televisivo degli Angelus, quasi a denotare che lo stile ammaliante non cattura più come all’inizio, avendo perso la spinta propulsiva così evidente e forte fino a uno-due anni fa.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.