Papa Francesco al termine del suo viaggio in Sudamerica nel 2015 (foto LaPresse)

Francesco, pastore del pueblo con tic peronisti. Detto da sinistra

Marco Valerio Lo Prete
Poco più di un anno dopo l’ascesa di Jorge Mario Bergoglio al soglio pontificio, nel giugno 2014 l’Economist ritenne necessario commentare un’intervista a la Vanguardia in cui Francesco diceva: "Stiamo scartando un’intera generazione per mantenere in vita un sistema economico che non riesce più a tenersi da sé".

Roma. Poco più di un anno dopo l’ascesa di Jorge Mario Bergoglio al soglio pontificio, nel giugno 2014 l’Economist ritenne necessario commentare un’intervista al quotidano spagnolo la Vanguardia in cui Papa Francesco diceva tra le altre cose: “Stiamo scartando un’intera generazione per mantenere in vita un sistema economico che non riesce più a tenersi da sé, un sistema che per sopravvivere deve fare la guerra, come accaduto per tutti gli imperi”. Il settimanale britannico più conosciuto al mondo chiosò così quelle parole: “Istituendo un nesso tra capitalismo e guerra, Papa Francesco sembra prendere una posizione ultra radicale: una posizione che, consapevolmente o meno, ricalca quella di Vladimir Lenin e la sua diagnosi su capitalismo e imperialismo come cause principali della guerra mondiale”. L’Economist, certo non un periodico conservatore, fu accusato da più parti di essere troppo liberista per comprendere fino in fondo Francesco.

 

Difficile oggi replicare quel tipo di accuse di fronte a un ponderoso saggio, anch’esso critico della cultura che emerge dai discorsi del Papa, scritto da Loris Zanatta, storico delle Relazioni internazionali dell’America Latina all’Università di Bologna. Zanatta, il cui ultimo libro s’intitola “La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Bergoglio” (Laterza), ha pubblicato infatti questo scritto su una prestigiosa  rivista di tendenza gauchiste, capace di unire la sinistra laica e quella cattolica, come il Mulino. Si tratta cioè del bimestrale diretto oggi da Michele Salvati, politologo e fondatore ideale del Partito democratico, la stessa rivista di cui fu caporedattore lo storico cattolico Pietro Scoppola, edita dalla omonima casa editrice che è stata presieduta tra gli altri dal cattolico democratico Romano Prodi. Il saggio di Zanatta è intitolato sobriamente: “Un Papa peronista?”. La risposta, seppure lungamente e abilmente articolata, è però un netto “sì”.

 


Lo storico Loris Zanatta


 

Sulla “celebre etichetta di Papa peronista”, scrive Zanatta, “molti ci hanno scherzato, pochi si sono sforzati di capirla. A torto. (…) Bergoglio è peronista? Assolutamente sì. Ma non perché vi aderì in gioventù. Lo è nel senso che il peronismo è il movimento che sancì il trionfo dell’Argentina cattolica su quella liberale, che salvò i valori cristiani del popolo dal cosmopolitismo delle élite. Il peronismo incarna perciò per Bergoglio la salutare coniugazione tra popolo e nazione a difesa di un ordine temporale basato sui valori cristiani e immune da quelli liberali. Bergoglio, in breve, è figlio di una cattolicità imbevuta di antiliberalismo viscerale, erettasi, attraverso il peronismo, a guida della crociata cattolica contro il liberalismo protestante, il cui ethos si proietta come un’ombra coloniale sull’identità cattolica dell’America latina”.

 

Ma allora Bergoglio è populista? “Assolutamente sì – risponde Zanatta – purché tale concetto sia inteso a dovere. Che si chiami peronismo o in altro modo, i tratti ideali del populismo antiliberale sono sempre gli stessi. Difatti il populismo del Papa non ha nulla di originale, salvo la proiezione globale che la sua carica gli conferisce. Prima però di vederne i contenuti”, lo storico fa un’altra premessa. “L’universo lessicale del Papa: nei suoi grandi viaggi del 2015 – Ecuador, Bolivia, Paraguay; Cuba e Stati Uniti; Kenya, Uganda, Centrafrica – Francesco ha pronunciato 356 volte la parola pueblo. Il populismo del Papa è già nelle parole. Meno familiarità ha invece Bergoglio con un altro lessico: democrazia l’ha detta appena 10 volte, individuo 14 volte, per lo più in accezione negativa. La parola libertà l’ha ripetuta più spesso, 73 volte, in più della metà dei casi negli Stati Uniti. A Cuba, per dire, l’ha detta solo due volte, due in più della parola democrazia. Sono numeri senza senso? Mica tanto. Ci confermano quel che si intuiva: che la nozione di pueblo è l’architrave del suo immaginario sociale. Non c’è niente di male: pueblo è una bella parola, potente ed evocativa. Ma anche scivolosa e ambigua.

 

Qual è l’idea di pueblo di Francesco? Il suo popolo è buono, virtuoso e la povertà gli conferisce un’innata superiorità morale. E’ nei quartieri popolari, dice il Papa, che si conservano saggezza, solidarietà, valori del Vangelo. Lì sta la società cristiana, il deposito della fede. Di più: quel pueblo non è per lui una somma di individui, ma una comunità che li trascende, un organismo vivente animato da una fede antica, naturale, dove l’individuo si scioglie nel Tutto. Come tale, quel pueblo è il Popolo Eletto che custodisce un’identità in pericolo. Non a caso l’identità è l’altro pilastro del populismo di Bergoglio: un’identità eterna e impermeabile al divenire della storia, di cui il pueblo ha l’esclusiva; un’identità cui ogni istituzione o Costituzione umana deve piegarsi per non perdere la legittimità che le conferisce il pueblo”. Continua lo storico, nel suo saggio che in Argentina è stato pubblicato in contemporanea sull’ultimo numero della rivista cattolica Criterio: “Va da sé che tale nozione romantica di pueblo sia discutibile e che altrettanto lo sia la superiorità morale del povero. Non ci vuole un antropologo per sapere che le comunità popolari hanno, come ogni comunità, vizi e virtù. E lo riconosce, contraddicendosi, lo stesso Pontefice, quando stabilisce un nesso di causa ed effetto tra povertà e terrorismo fondamentalista; un nesso peraltro improbabile. Ma idealizzare il pueblo aiuta a semplificare la complessità del mondo, cosa in cui i populisti non hanno rivali”.

 


Papa Francesco in Ecuador, prima tappa del viaggio in America nel 2015 (foto LaPresse)


 

Al pueblo il Pontefice contrappone “una oligarchia predatrice ed egoista”, “essenza del Male come cultrice pagana del Dio denaro: il consumo è consumismo, l’individuo egoista, l’attenzione al denaro adorazione senz’anima”. Zanatta si interroga sulla fondatezza di questa visione, e ancora una volta è scettico: il mondo sarà diseguale ma è sempre più ricco, e a livello mondiale anche meno diseguale da vent’anni a questa parte. Prova ne è che “in Asia e in America latina decine di milioni di persone hanno fatto ingresso nel ceto medio: sono più scolarizzate del pueblo caro a Bergoglio. Una cronista ha chiesto al Papa: perché non parla mai del ceto medio? Già: che ruolo avrà nel mondo bipolare del populismo papale? Francesco, gentile, ha ringraziato del suggerimento e si è ripromesso di dire qualcosa. Poi il Papa ha ricordato di averne detto qualcosa in passato. Ed è vero: il ceto medio, disse e pensa, è una classe coloniale che contagia il pueblo con l’ethos individualista. Perciò non ha mai nascosto di prediligere i movimenti politici e sociali nazionalpopolari e di detestare quelli del ceto medio: a Cristina Kirchner ha concesso cinque udienze in un paio d’anni; non perché l’amasse, ma perché era peronista, il partito del pueblo. Con Mauricio Macri non s’è nemmeno felicitato, quando ha vinto le elezioni: così vuole il protocollo, ha spiegato, lui che della forma suole farsi un baffo. Ovvio: Macri incarna il ceto medio porteño, laico e cosmopolita”.

 


   

L'ex presidente dell'Argentina Cristina Kirchner e l'attuale presidente argentino Mauricio Macri (foto LaPresse)


 

Da questa idea di populismo discenda l’idea di una democrazia come “concetto sociale, solamente sociale”. “Pochi aneddoti, tratti dai momenti in cui il Papa si discosta dai testi scritti, illustrano quanto scritto finora. In Paraguay, si sa, Bergoglio fece una gaffe. Capita anche ai Papi: amen. Ma una gaffe che si presta a considerazioni. In breve: qualcuno chiese a Francesco di fare appello per la liberazione di un prigioniero, lui dette per scontato che si trattasse di un abuso dello stato e fece una lavata di capo pubblica al presidente del Paraguay, salvo scoprire che il prigioniero in questione era nelle mani di un gruppo terrorista e che lo stato paraguayano, per malconcio che sia, non c’entrava nulla. La sua reazione, spontanea e in buona fede, lascia interdetti. Intanto rivela le predilezioni del Papa: bello o brutto che sia, il governo paraguayano non ricade nel novero dei governi del pueblo cari a Bergoglio; al contrario di quelli di Ecuador e Bolivia, dove era stato assai abbottonato con le autorità locali, che non si può certo dire siano senza macchia. L’episodio dimostra poi che il silenzio sui diritti umani, mantenuto in seguito da Francesco a Cuba o in Uganda, non si deve a una precisa volontà di evitare tensioni con le autorità politiche. Quando lo ritiene opportuno, Bergoglio non teme di richiamarle all’ordine: come in Paraguay e in Centrafrica. La convinzione che taluni regimi tutelino l’essenza religiosa del pueblo meglio di altri, si direbbe la sua bussola”.

 

Se n’è avuta un’altra prova durante il suo viaggio a Cuba, “quando un giornalista gli ha chiesto: perché non ha ricevuto i dissidenti? Lo sa che molti sono stati arrestati perché non la incontrassero? Non ne so nulla, ha risposto Francesco, e comunque non ho concesso udienze private a nessuno, ‘non solo a dissidenti, ma perfino a un capo di stato’. Così, ponendo sullo stesso piano la foto che un dignitario sperava di portare a casa insieme al Papa e i familiari dei prigionieri in cerca di conforto. Com’è possibile? Lui stesso ci aiuta a capirlo: i diritti umani, aveva detto poco prima, non si rispettano in molti paesi del mondo. Per poi aggiungere: vi sono paesi europei che per vari motivi non ti permettono nemmeno di portare segni religiosi”.
E se “il Tutto è superiore alla Parte”, non sorprende lo sprezzo di Francesco per l’individualismo, dimostrato in particolare durante i suoi viaggi in Africa, con i commenti su diritti e Aids: “C’è un’umanità da salvare – commenta Zanatta – Come perdersi dietro a individui che probabilmente hanno peccato?”. “Se tale è il prisma ideale attraverso cui il Papa interpreta il mondo, ha buon gioco chi ne fa notare la vena apocalittica, la cui altra, inevitabile faccia è la vena redentiva. E’ uno snodo chiave, perché il binomio apocalisse/redenzione è l’anima della visione manichea del mondo tipica del populismo; una visione ostile agli approcci pragmatici ai problemi del mondo, in cui Francesco vede in agguato l’impero ‘tecnocratico’ che tutti ci domina”.

 

Si legge ancora nel lungo saggio pubblicato sul Mulino: “La dialettica politica si trasforma in guerra tra pueblo e antipueblo; l’apocalissi è una profezia che si autoavvera; la redenzione rimane un sogno inappagato. Ciò non impedisce però a Francesco, afflitto dall’idea che la globalizzazione contagi e uccida le identità del pueblo, diverse tra loro ma tutte intrise di religiosità, di invocarne la difesa a oltranza. E’ ciò cui mira quando si scaglia contro l’uniformità che  il capitale imporrebbe al mondo; quando chiede pluralismo, concetto che Bergoglio declina a suo modo: come pluralità di pueblos, una volta ancora, non di invidui; benché molti pueblos non ammettano pluralismo al loro interno. Eppure è ovvio che le identità non sono immuni al cambiamento, che sono di per sé soggette ad ibridarsi tra loro. E lo è ancor più che l’imputazione di colonizzare tali identità che il Papa rivolge oggi alla globalizzazione, fu un tempo rivolta alla cristianità, quando plasmò le identità popolari che Francesco ora difende come fossero eterne e statiche”.

 

“Ma quante chiacchiere astruse, dirà qualcuno: la sostanza è che il Papa difende i poveri e denuncia i potenti. Il resto è artificio intellettuale, attività che Francesco ama così poco da ripetere spesso che la Realtà è superiore alle Idee. La tradizione populista è d’altronde anti intellettuale per definizione. L’argomento è così forte, così definitivo nel porre chi l’espone dal lato della superiorità morale, che non lascia molto margine a obiezioni. Al laico malato di dubbi, però, cui lo studio della storia ha insegnato che spesso le migliori intenzioni fanno più danni della grandine e allontanano l’obiettivo che ambivano raggiungere, qualche domanda sorge spontanea. La prima è se le vaghe idee che il Papa espone sull’economia siano le più adeguate per ridurre le diseguaglianze sociali e la povertà. Ne dubito. E so che ne dubitano in molti. Il Papa non è un economista e non è tenuto a dare ricette! Giusto. Ma dato che, com’è sacrosanto, si esprime in proposito, altrettanto lecito sarà esprimersi su quanto le sue diagnosi e le terapie cui allude siano infondate: molto meno mercato, molto più stato, in breve; l’economia dovrebbe basarsi su princìpi morali invece che sulla logica del profitto. Il che non è una gran novità, diciamolo. Il fatto è che i modelli economici populistici cui in tal modo Francesco allude non hanno mai dato buona prova: né in termini di creazione della ricchezza da distribuire, né di riduzione strutturale delle diseguaglianze. Le economie populiste fabbricano povertà in nome del povero e la loro eredità suole gravare sulle generazioni future. Non sarà eccessiva l’ostilità del Papa per il mercato?”.

 

Un monito per la gauche senza popolo

 

Un dilemma intrigante, infine: “Da un lato, il Papa lancia strali contro l’ingiusto sistema economico, causa della diffusa povertà nel mondo; dall’altro lato, però, indica nel Povero la quintessenza delle virtù da preservare. Francesco sottoscriverebbe la famosa frase di Olof Palme: il nostro nemico non è la ricchezza, ma la povertà? O dinanzi al rischio che con la povertà svaniscano le virtù cristiane del Povero, prediligerebbe un mondo di poveri? Così farebbe pensare la sua esplicita vena pauperistica. non è chiaro: Bergoglio si esprime ora contro la povertà, ora in difesa del Povero”. Questa l’analisi. Dopodiché Zanatta si domanda, in conclusione, quanto sia fondata questa visione del mondo. L’avanzata del ceto medio in tutto il pianeta consiglierebbe cautela, visto che “perfino sul piano politico, i populismi con cui il Papa condivide tante affinità hanno subìto duri colpi, specie in America latina, tanto da fare sospettare che stiano rimanendo orfani del pueblo che invocano”. In altre parole il Pontefice rischia di rimanere “adorato dai fedeli ma anch’egli orfano, almeno un po’, del pueblo”. Un monito laico, certo, che pubblicato sul Mulino di Salvati suona soprattutto come un avvertimento a quella sinistra globale che in Francesco sembra aver trovato un nuovo Papa straniero per navigare nell’attuale terra incognita dell'economia.

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