Licio Gelli (foto LaPresse)

Perché non reggono le accuse contro Gelli sulla strage di Bologna

Massimo Bordin

Lui e i suoi accoliti erano padroni del Corriere della Sera e del Banco Ambrosiano, ai vertici delle partecipate di stato, del Csm e dei servizi segreti e il Pci era uscito dall’area di governo. Cosa mai dovevano destabilizzare?

Sulla strage di Bologna, come tutti gli anni ad agosto, si torna a dibattere e a proporre interviste. Francesco Pazienza ha ormai i capelli bianchi ma torna sulla scena dopo essere tornato in libertà e lo fa, secondo lo spirito del tempo, parlando con Fan Page. Anche Paolo Bolognesi, personaggio diversissimo da Pazienza, sceglie la rete e le sue infinite interconnessioni, affidando all’Huffington Post nuovi acrobatici link, stavolta fra la strage alla stazione e quella di via Fani. Una cosa è certa: nessuno è appagato dalla sentenza e, come qui ieri si scriveva, tutti vogliono la “verità”. Allora bisogna ripartire dalla sentenza, andando al nocciolo della questione. L’accusa proponeva un vasto complotto di Gelli e la P2, con gli immancabili servizi deviati e gruppi vecchi e nuovi del terrorismo neofascista. Movente della strage: la destabilizzazione dello stato democratico, come avevano già tentato nel quindicennio precedente. Benissimo. Il problema politico è che Gelli, i suoi protettori e i suoi accoliti, al contrario della destra degli anni 60, erano tutt’altro che degli emarginati. Avevano l’acqua che gli andava per l’orto, direbbe Bersani. Erano padroni del Corriere della Sera e del Banco Ambrosiano, i loro uomini erano piazzati ai vertici delle allora molte partecipate di stato, del Csm e dei servizi segreti e il Pci era uscito dall’area di governo. Cosa mai dovevano destabilizzare? Una ipotesi del genere, tanto azzardata, avrebbe avuto bisogno di prove davvero granitiche, che naturalmente i pm non hanno trovato e, assolti tutti, tranne Fioravanti e Mambro rimasti appesi come i caciocavalli di Croce, è logico che condannati e vittime protestino.

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