Manifestazione per Giulio Regeni davanti l'Ambasciata di Egitto (foto LaPresse)

Una significativa intervista sul caso Regeni e la responsabilità britannica

La tesi non è nuova ma l’avallo è autorevole. La potremmo chiamare “la pista inglese”

Se non le indagini, di cui poco effettivamente si sa, almeno l’attenzione per l’omicidio di Giulio Regeni sta vivendo in questi giorni una innegabile accelerazione. Difficile dire se ci sia un collegamento con la contestata decisione del nostro governo di reinsediare un ambasciatore al Cairo. L’uscita sul magazine del New York Times del lungo articolo sulle informazioni passate all’Italia sul caso, può portare a notare la coincidenza ma forse non c’è relazione. La notizia data dalla Farnesina e l’uscita dell’articolo stampato dal magazine sono pressoché contemporanee. La tempestività è eccessiva e i tempi, pur ridotti, di impaginazione e stampa mettono in dubbio il nesso di causalità. Meglio tenersi ai fatti. Le informazioni contenute nell’articolo del Nyt sono da classificare come il proverbiale segreto di Pulcinella. Il fatto che il Rais egiziano sappia molto più di quanto dia a vedere è dato universalmente per scontato. Come scontata appare la collocazione degli esecutori materiali del rapimento, delle torture e dell’abbandono del corpo in un posto ben visibile, il giorno dell’incontro fra le imprese italiane e il governo egiziano. Le mani torturatrici e omicide non possono che essere di uno dei tanti servizi di “sicurezza” governativi. Quanto ai mandanti, proprio ieri c’è stata una significativa intervista, firmata da Claudia Fusani su Huffington Post, al generale Leonardo Tricarico che ha indicato, con uno strano gioco di parole, come “mandante” l’Università di Cambridge, che aveva effettivamente mandato in Egitto il povero Regeni. Il senso delle parole del generale era “lo hanno mandato a morire”. La tesi non è nuova ma l’avallo è autorevole. La potremmo chiamare “la pista inglese”. Domani qui ci si torna.

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