Manifestanti davanti all'ambasciata italiana al Cairo dopo l'omicidio Regeni (foto LaPresse)

Quanto c'è di vero nella cosiddetta pista inglese sull'omicidio Regeni

Massimo Bordin

Un'ipotesi suggestiva ma senza riscontri, che ricorda per molti versi le troppe indagini su "mandanti eccellenti" di cui certi pm sono specialisti

Come promesso, oggi quarta e ultima puntata sull’omicidio Regeni e la cosiddetta pista inglese. Nel frattempo a puntare il dito su Cambridge si è aggiunto, a un ex capo di stato maggiore e consigliere politico di palazzo Chigi e a un ex capo dell’intelligence interna, anche un ex ministro della difesa, Arturo Parisi. "Scrivono di Cambridge giornalisti che in genere si occupano d’altro" stigmatizza in rete il responsabile italiano di Amnesty. Non è però il caso di Alberto Negri, grande esperto di cose orientali, che per la morte di Regeni evoca la categoria dei "soliti sospetti", avversari della politica mediorientale degli Usa e degli interessi italiani nell’area: Francia e Inghilterra. Un remake di Suez 1956, la nostalgia dei protettorati perduti sono le suggestioni, ma anche qualcosa di più, che contestualizzano la "pista" oltre alla reticenza dell’antica università – che però può essere spiegata come una reazione altezzosa a una non smagliante figura comunque fatta – e al ritrovamento del corpo il giorno degli accordi, saltati, fra Italia ed Egitto. Regeni, però, non era un dissidente egiziano e farne sparire il corpo può non essere apparsa una buona idea agli sgherri dei servizi egiziani. Dunque la pista inglese è suggestiva ma non ha riscontri, ricorda per molti versi le troppe indagini su "mandanti eccellenti" di cui certi pm sono specialisti. Resta il problema politico dei rapporti internazionali del nostro paese, per i quali gli ambasciatori in genere hanno una certa utilità, ma sarebbe deprecabile che qualche carabiniere piazzasse microspie a Buckingham Palace.