Abdel Fattah al Sisi (foto LaPresse)

La morte di Regeni è un attentato alla necessaria leadership di al Sisi

Mario Mori

Il rinvenimento studiato del corpo del giovane italiano dimostra che l’omicidio, con ogni evidenza opera di organismi istituzionali, è stato sfruttato da una componente politica per mettere in crisi il presidente

Il caso Regeni è tornato all’onore delle prime pagine giornalistiche per la sortita ferragostana del New York Times che ha rivelato come il governo degli Stati Uniti avrebbe fornito a quello italiano “prove esplosive” sulla colpevolezza delle autorità egiziane per la morte del nostro connazionale. Questi dati inconfutabili non sono stati però messi in chiaro, e le precisazioni successive allo scoop hanno evidenziato che in effetti, se la segnalazione americana è stata effettivamente inviata, era di natura generica, tale cioè da non fornire nessun contributo alla verità fattuale.

 

L’articolo del Nyt è uscito in contemporanea alla notizia che l’Italia aveva deciso di reinsediare al Cairo il proprio ambasciatore, richiamato per consultazioni a Roma pochi giorni dopo la morte del giovane stagista in segno di protesta contro le ambiguità investigative evidenziate dagli organismi istituzionali egiziani.

 

Quello del Nyt ha tutta l’aria di presentarsi come un articolo che in gergo viene definito “freddo”, cioè fatto e messo da parte per pubblicarlo a tempo debito e non è detto che la sua confezione, che si configura più che altro per una polpetta avvelenata, sia da addebitare a fonti americane. Il ritorno dell’ambasciatore d’Italia al Cairo sottolinea un nostro recupero nel gioco degli scambi con l’Egitto, tradizionalmente molto rilevante, e questo fatto, più che l’America, ha infastidito qualche paese europeo, in primis la Francia. Tutti infatti ricorderanno la tempestività con cui il suo presidente François Hollande si sia recato al Cairo, approfittando della crisi dei rapporti con l’Italia, per rilevare la stipula di vantaggiosi contratti, in specie nel campo delle forniture militari.

 

L’Egitto del presidente Fattah al Sisi è oggetto in questa fase storica di pressioni molteplici, sia all’interno che all’estero. In campo internazionale l’Egitto, oltre ad assolvere la secolare funzione di rappresentare uno dei punti di riferimento irrinunciabili negli orientamenti del mondo arabo, è fatto oggetto di attenzioni interessate da una serie di paesi. Non solo quelli mussulmani di fede sunnita che ne reclamano l’alleanza e il sostegno in funzione anti sciita, ma anche dalle grandi potenze mondiali e regionali dell’area del Mediterraneo che lo considerano un indispensabile partner politico ed economico.

 

Non è questa la sede per tentare una valutazione sulla funzione strategica complessiva dell’Egitto, ma già se ci limitiamo alla prospettiva italiana, possiamo avere un quadro efficace della sua importanza, inserito com’è quel paese nello stesso scacchiere geopolitico oggetto del nostro interesse.

 

Il manifestarsi della tragica vicenda di Giulio Regeni, oltre ai tradizionali buoni rapporti tra le due nazioni, ha interrotto costruttive intese economiche e quel filo politico ben preciso che ci consentiva di tenere in vita il dialogo mediato con la Cirenaica del generale Khalifa Haftar ed evitare quindi i contraccolpi non solo nella gestione della crisi libica, ma più in generale nei nostri rapporti con il gruppo dei paesi del Maghreb. Anche in questo settore il ritorno a una fase attiva dell’Italia, sottolineata in particolare dalle iniziative del nostro ministro dell’Interno, non hanno fatto piacere a qualche paese amico che riteneva di potere gestire senza altri interlocutori la propria azione d’influenza nell’area.

 

In campo interno la situazione egiziana è caratterizzata dalla lotta senza esclusione tra il regime militare al potere e il terrorismo islamico, sostenuto ora anche dalla componente della Fratellanza mussulmana, messa fuori dal gioco politico con l’avvento del generale al Sisi. La politica dell’Egitto deve essere da noi considerata nell’ambito di quelli che sono i nostri interessi strategici; e i nostri interessi ci dicono come oggi abbiamo la convenienza che l’attuale regime resti in sella, perché un suo crollo avrebbe ripercussioni negative enormi su tutto il bacino del Mediterraneo.

 

La situazione politica interna egiziana non è per nulla consolidata. La struttura di potere, tradizionalmente nelle mani dei militari, dai Mamelucchi in poi, non è un monolite indistruttibile, nel suo interno si agitano tendenze diversificate che vanno dalle simpatie verso Israele a interessati collegamenti con l’area salafita. Al Sisi si muove in questo contesto; la morte di Giulio Regeni a mio avviso è un attacco alla sua leadership, se così non fosse il corpo del povero ragazzo non sarebbe stato fatto rinvenire lungo l’autostrada Cairo-Alessandria, ma sarebbe scomparso nel deserto, come purtroppo è successo in più circostanze anche in tempi recenti, e forse mai più ritrovato. Il suo studiato rinvenimento dimostra che l’omicidio, con ogni evidenza opera di organismi istituzionali, è stato sfruttato da una componente politica per mettere in crisi, più che gli attuali rapporti internazionali, la posizione di Fattah al Sisi. Bene quindi ha fatto dal punto di vista politico il nostro governo a rimandare il suo ambasciatore al Cairo. Da lì con un’assidua azione diplomatica potrà meglio sostenere anche le sacrosante ragioni della famiglia Regeni e della società italiana che vogliono la verità su quella terribile morte. Ritengo infatti che, nel caso, possa più l’opera di un abile negoziatore che non i confronti tra i magistrati dei due paesi i quali, facendo riferimento a due tipi di codice tra loro significativamente differenti, non hanno una reale e concreta possibilità di stabilire un dialogo produttivo su di un argomento che non è più solo una vicenda giudiziaria ma è ormai divenuto sopratutto un fatto politico.

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