L'odio di Angelo Epaminonda per i mafiosi

Massimo Bordin

Lui, catanese, li chiamava “i palermitani” e ne derideva la prosopopea criminale

Ho conosciuto Angelo Epaminonda negli anni 80, dopo il suo “pentimento”, quando era già in una sorta di regime di semilibertà. Ieri i giornali hanno dato la notizia della sua morte, superati da poco i settant’anni. E’ morto, come usa dire, per cause naturali. Una fine imprevedibile fino al momento della sua resa e per certi versi anche negli anni successivi quando, cambiata identità per sfuggire a chi lo voleva morto, gestiva un negozio di alimentari in un paese dell’Italia centrale, lontano da Catania, dove era nato, e da Milano, dove era diventato il temuto re delle bische, uccidendo, secondo i conti della legge, almeno una decina di persone. Epaminonda era un gangster, feroce, ma non un mafioso. Anzi i mafiosi li odiava. Quello che mi colpì fu il disprezzo con cui ne parlava. Lui, catanese, li chiamava “i palermitani” e ne derideva la prosopopea criminale. Li considerava potenti parassiti con manie ridicole. Raccontava come da giovane in carcere i capi famiglia lo criticassero perché si presentava in cortile in canottiera e calzoncini. “Un siciliano, qui, non deve presentarsi così” gli dicevano sussiegosi, con la camicia di seta e i pantaloni stirati, ma lui se ne fregava. Uscì, andò a Milano e, conquistate le bische a raffiche di mitra, si mise lo smoking ma non si mischiò con “quelli”, se non per lo stretto necessario. La sua vita, certo non commendevole, non va commemorata, ma è utile a capire come un “romanzo criminale”, perfino quello di un siciliano, non debba essere necessariamente letto in chiave di mafia, suggestivamente intesa.

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