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L'analisi

Da guerra culturale a lotta politica. Che ne facciamo del gender?

Marco Bardazzi

Si spacca l’America delle solitudini. Negli Stati Uniti, i giovani si amano sempre di meno ma si definiscono sempre più “non binari”. Il tema delicato del cambio di sesso affrontato a colpi di leggi e brandito in campagna elettorale

C’è l’America vista dalle finestre della Casa Bianca, dove Joe Biden e Kamala Harris hanno appena annunciato di voler restare come inquilini fino al 2029: è un paese fatto di aumento dei posti di lavoro, grandi infrastrutture in arrivo, energia pulita e tecnologia al servizio della crescita. Poi c’è l’America reale, quella fuori dalle finestre su cui si affaccia lo Studio Ovale. E in quei 3.700 chilometri tra Washington e il Pacifico le cose appaiono un po’ diverse. Qui le statistiche che fanno riflettere non sono solo quelle economiche. Due studi diffusi dal governo americano nelle ultime settimane sollevano un velo su come si vive dietro milioni di altre finestre: non quelle della Casa Bianca, ma quelle delle case e delle scuole degli americani. 

 

Il 3 maggio Vivek Murthy, il Surgeon General degli Stati Uniti, cioè il capo operativo della sanità federale, ha lanciato l’allarme rosso per quello che ha definito “l’impatto devastante” che sta avendo l’epidemia di solitudine e isolamento che da anni colpisce l’America. Una situazione aggravata, ma non causata dal Covid, perché già prima della pandemia “circa metà della popolazione adulta degli Stati Uniti stava sperimentando un qualche livello di solitudine”. Le cose stanno peggiorando e adesso, secondo Murthy, la solitudine minaccia di avere conseguenze drammatiche in un paese dove un adulto su cinque e un ragazzo su tre convivono con una qualche patologia mentale.  

 

Pochi giorni prima un altro studio era stato diffuso dal principale centro di ricerca della sanità pubblica americana, i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc). Usando dati relativi al 2021, il Cdc ha stimato che attualmente uno studente di scuola superiore su quattro si identifica come Lgbtq, con un salto in pochi anni dall’11 per cento del 2015 al 26 per cento attuale. Una percentuale dentro la quale si nascondono molte sfumature e la chiara percezione di un’ampia ricerca in corso tra i ragazzi in tema di identità di genere: il 12,2 dei liceali si identifica come bisessuale; il 5,2 come persona “che si interroga”; il 3,9 per cento come “altro” rispetto alle identità proposte; il 3,2 per cento come gay o lesbica e un restante 1,8 per cento sostiene di non saper rispondere. Le due ricerche riguardano ovviamente fenomeni diversi, ma il punto di contatto che crea interrogativi è la profonda solitudine nella quale i ragazzi americani si trovano a fare scelte sulla sessualità, in un momento storico in cui la gamma di “offerta” che hanno a disposizione e il livello di accettazione sociale per qualsiasi opzione sono molto più vasti di quelli sperimentati dalle generazioni precedenti. Il mix tra teorie e ideologie di genere e un’epidemia senza precedenti di solitudine e isolamento non sembra promettere niente di buono. 

 

A complicare tutto adesso è arrivata la politica, con le consuete semplificazioni eccessive e un livello di polarizzazione che rendono ormai impossibile trovare terreni di dialogo. I democratici e la parte più progressista del paese hanno tenuto per anni il piede sull’acceleratore per far cadere qualsiasi barriera al propagarsi della “gender-affirming care”. All’esplosione numerica della disforia di genere tra bambini e adolescenti – sulle cui cause c’è ampio e acceso dibattito tra gli addetti ai lavori – si è risposto con un modello “affermativo di genere” che prevede una vasta gamma di possibili interventi non solo di tipo sociale ma anche medico, dai bloccanti puberali al trattamento ormonale a vita, fino alla chirurgia. Dall’altra parte della barricata, i repubblicani e il mondo conservatore per lungo tempo si sono interessati poco di tematiche Lgbtq, preferendo concentrare gli sforzi politici in battaglie sui “valori” in altri campi: prima l’aborto, poi la questione dei matrimoni gay. Tutto è cambiato negli ultimi anni, quando il tema del gender è stato individuato come un potentissimo catalizzatore politico capace di mobilitare l’elettorato di destra. La sconfitta dei repubblicani nel 2015 sul tema delle unioni tra persone dello stesso sesso, con la sentenza Obergefell v Hodges della Corte suprema, è stata la svolta, il punto di partenza per spostarsi su un altro terreno di scontro e cominciare a costruire una strategia di contrasto alle legislazioni in tema di disforia di genere in tutti gli stati. 

 

Ad accelerare il percorso, paradossalmente, è stata la vittoria dello scorso anno da parte del mondo conservatore sul tema dell’aborto. La sentenza del giugno 2022 con cui sempre la Corte suprema ha cancellato il diritto costituzionale all’interruzione di gravidanza, cinquant’anni dopo la storica sentenza Roe v Wade che lo aveva introdotto, ha creato infatti un enorme problema ai repubblicani. La difesa dell’aborto sta compattando e mobilitando i democratici, come si è visto alle elezioni di midterm del novembre scorso: il partito di Biden ha conservato il controllo del Senato e tenuto tutto sommato bene alla Camera anche e soprattutto grazie all’indignazione dei suoi elettori per la sentenza della Corte. E il tema si presenta come rilevante anche nella corsa alla Casa Bianca del 2024. Di fronte a questo scenario, i repubblicani hanno deciso di mettere la transizione di genere al centro dell’attenzione, convinti che sia un terreno di sfida capace di mobilitare gli elettori di Donald Trump, Ron DeSantis o di chiunque sarà lo sfidante di Biden per la presidenza. Una coalizione di centri studi conservatori si è messa al lavoro per disegnare la nuova strategia. Realtà come Heritage Foundation, American Principles Project, Alliance Defending Freedom e Liberty Counsel hanno offerto le basi legali e culturali per costruire un percorso cominciato nel 2016 con le prime iniziative statali contro leggi su alcuni aspetti del tema gender. Per esempio quelle che permettono ai transgender di accedere ai bagni pubblici di loro scelta senza distinzione tra maschi e femmine o ad atlete che hanno attraversato una transizione di genere di gareggiare in eventi sportivi femminili. Poi si è passati alla denuncia più articolata e dettagliata a tutta la cosiddetta ideologia woke, attaccando qualsiasi iniziativa che venisse percepita come una minaccia per la famiglia tradizionale e l’approccio binario alle questioni di genere. Lo scontro si è così spostato nelle scuole e qui si è ben presto distinto DeSantis, facendo della Florida di cui è governatore un laboratorio di divieti soprattutto sull’insegnamento scolastico di tematiche legate alla sessualità. Battaglie che hanno dato al probabile sfidante di Trump per la nomination repubblicana una visibilità nazionale, grazie agli scontri per esempio con la Disney – il principale datore di lavoro in Florida – che nei propri parchi a tema a Orlando ha continuato il proprio approccio di apertura alle tematiche Lgbtq. 
Si è arrivati così all’offensiva di questi ultimi mesi, che è per molti aspetti sorprendente e per ora ha spiazzato i democratici. Dall’inizio dell’anno, diciotto stati a guida repubblicana hanno approvato legislazioni che vietano gli interventi di “gender-affirming care” per i minorenni. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’Oklahoma, dove il governatore Kevin Stitt a inizio maggio ha firmato un provvedimento che mette fuorilegge qualsiasi trattamento per il cambio di sesso prima del compimento dei 18 anni. Tutte decisioni passate senza troppe discussioni né resistenze, con l’unica eccezione in Montana dove ha fatto scalpore l’appello di David Gianforte, il figlio del governatore repubblicano Greg Gianforte. Il giovane, che si identifica come “non-binario”, ha chiesto pubblicamente – e inutilmente – al padre di non firmare la legge anti-trans varata dal parlamento locale, definendola “immorale”. Un’altra decina di stati sono impegnati in battaglie nelle sedi legislative e giudiziarie per far passare provvedimenti analoghi. La gamma di interventi e le fasce d’età coinvolte variano da stato a stato, ma sostanzialmente si tratta di uno stop a bloccanti puberali, trattamenti ormonali e chirurgia per i più giovani. Secondo il New York Times, dietro la rapida offensiva legislativa di questi mesi c’è soprattutto il lavoro del team dell’American Principles Project (App), un think tank che sul proprio sito web si presenta come il “principale difensore della famiglia in America”. E allora conviene andare qui a chiedere cosa sta succedendo e come si è arrivati all’accelerazione degli ultimi mesi. 

 

“Il nostro ruolo è stato duplice”, spiega al Foglio il direttore della comunicazione di App, Paul Dupont, dalla sede dell’organizzazione ad Arlington (Virginia), alle porte di Washington. “Da alcuni anni App promuove campagne pubblicitarie per mostrare ai repubblicani che opporsi ai cambiamenti di sesso per i bambini può essere un tema elettorale efficace. Ci sono da tempo movimenti di base che spingono per mettere al bando queste procedure, ma i repubblicani esitavano ad agire perché pensavano che li avrebbe danneggiati politicamente. Il nostro obiettivo è stato quello di mostrare loro che non è questo il caso e crediamo di aver avuto successo”. Adesso che sono partite le offensive legislative in vari stati, aggiunge Dupont, “stiamo lavorando per avere un ruolo di supporto nell’aiutare le proposte di legge ad essere approvate. Entriamo in campo in momenti strategici, offrendo sostegno pubblico e talvolta agendo anche politicamente per far arrivare le leggi al traguardo. Visto il trend, ci aspettiamo che ogni stato a controllo repubblicano si mobiliterà su questo tema”. All’American Principles Project ora sono convinti che il tema del cambio di sesso giocherà “un ruolo significativo nella campagna presidenziale, visto che i due principali sfidanti per la nomination repubblicana, Trump e DeSantis, hanno già cavalcato apertamente queste tematiche. E’ una delle differenze più grandi che ci sono tra i due partiti e i repubblicani adesso l’hanno giustamente riconosciuta come una possibilità di guadagnare voti”.  

 

Per Dupont e per App, siamo di fronte a una battaglia che durerà a lungo e che solo in parte può essere paragonata alle campagne contro i matrimoni gay o l’aborto. E comunque, è il loro parere, i democratici se la sono cercata. “Il dibattito sui matrimoni gay”, spiega il portavoce dell’organizzazione, “ha richiesto decenni per evolvere, mentre la questione transgender è esplosa in modo relativamente rapido. Non era ancora asciutto l’inchiostro della sentenza Obergefell della Corte suprema e già l’amministrazione Obama cercava di forzare la mano nelle scuole di tutto il paese per permettere agli studenti accessi ai bagni e alle attività sportive in base ‘all’identità di genere’. Non credo che la maggior parte degli americani fosse pronta a veder entrare nelle loro vite così velocemente il tema del genere. I sondaggi ci dicono che la maggioranza degli americani crede ancora che il sesso sia una realtà biologica e le percentuali sono addirittura in aumento in alcuni casi. Sarà dura per i democratici convincerli del contrario”. Politicamente lo scenario diventa quindi chiaro in vista della corsa alla Casa Bianca: l’ala trumpiana dei repubblicani spera di mobilitare la propria base sulla transizione di genere, in maniera analoga a quello che i democratici stanno facendo sull’aborto. Una mossa che costringerà Biden a spostarsi più a sinistra, come ha già fatto sull’interruzione di gravidanza, schierando la propria amministrazione in difesa della comunità Lgbtq e delle terapie per il cambio di sesso. Resta da vedere se si tratti di una scelta vincente, come immaginano gli strateghi dell’area MAGA (Make America Great Again, il mondo di Trump), o se abbia ragione chi tra i repubblicani preferisce maggiore prudenza, come Nikki Haley, l’ex ambasciatrice all’Onu e già governatrice del South Carolina che sfida l’ex presidente per la nomination. Perché scegliere questo terreno di scontro significa far entrare la campagna elettorale nelle scuole, nei college, nelle famiglie e molto probabilmente mobilitare in maniera significativa i giovani, cioè proprio quella parte di elettorato di cui Biden ha bisogno e che da presidente “boomer” ottantenne ha più difficoltà a raggiungere. Il 5 novembre 2024, al momento di votare per scegliere il prossimo presidente, i repubblicani potrebbero scoprire di essersi messi nei guai con le proprie mani. 

 

Ma le vere conseguenze della forte politicizzazione di un tema così delicato, le pagherà inevitabilmente soprattutto la generazione che è alle prese con gli interrogativi sulla propria identità sessuale emersi dalla ricerca del Cdc. “Buttarla in politica” non era l’opzione migliore in questa fase del dibattito sulla disforia di genere, caratterizzata da interrogativi e ripensamenti anche sul fronte medico e scientifico. E’ vero che i divieti imposti dagli stati repubblicani hanno il merito quantomeno di tenere il tema al centro dell’attenzione, ma c’è molta confusione intorno all’universo Lgbtq e le questioni di carattere terapeutico rischiano di venir mescolate e strumentalizzate per colpa degli eccessi del dibattito sul fronte sociale. L’esempio più vistoso è il livello che hanno raggiunto le iniziative mirate all’inclusività, che si stanno rivelando un caotico moltiplicarsi di sigle e di pronomi difficili da navigare. La conseguenza è il senso di esasperazione che hanno espresso per esempio buona parte dei 900 poliziotti di Portland, in Oregon, che sono stati sottoposti a un corso obbligatorio intitolato “Come interagire con i membri della comunità Lgbtqia2s+/Queer”. Già la sigla scelta rende l’idea della vastità di sottocategorie dell’universo transgender che gli organizzatori hanno voluto elencare. Ma a far agitare i poliziotti sono stati soprattutto la serie di video-test in cui gli agenti dovevano destreggiarsi tra la gamma di pronomi (he, she, him, her, they, them…) da scegliere per interagire con i vari personaggi proposti. A introdurre il corso è stata Laura Rosenstein, responsabile “dell’addestramento all’uguaglianza” del dipartimento di polizia, che si è presentata scandendo i propri pronomi (she/her/hers) e descrivendosi come “donna cisgender, che significa che la mia identità di genere è conforme con il sesso che mi è stato assegnato alla nascita e con le norme di genere della cultura dominante qui negli Stati Uniti”. Il quotidiano locale The Oregonian ha avuto l’accesso ai commenti anonimi che i poliziotti hanno scritto alla fine del corso e ha registrato un collettivo senso di ira e frustrazione. “Una colossale perdita di tempo”, “ridicolo”, “spazzatura”, “umiliante”, “infantile” sono alcuni dei sentimenti espressi. Qualcuno si è limitato a una constatazione netta: “Dio ha creato uomo e donna. Non è difficile capirlo”. E altri poliziotti sono andati giù pesante, sconfinando nel razzismo e nelle offese a sfondo sessuale. La sensazione è che il tentativo di essere inclusivi stia creando in realtà solchi sempre più profondi, alimentati da una guerra culturale dove alle tematiche Lgbtq si sommano quelle razziali, gli strascichi del movimento Black Lives Matter, la “cancel culture” (il mix che DeSantis riassume con il suo mantra: woke) e una miriade di teorie della cospirazione che rischiano di far finire il tema delicato e drammatico della disforia di genere in un minestrone politicamente strumentalizzabile sia da destra che da sinistra. 

 

E’ l’opposto di quello di cui avrebbero bisogno ragazze e ragazzi che nel sondaggio Cdc hanno espresso tutti i loro interrogativi identitari, alle prese insieme a insegnanti e famiglie con un evidente momento di cambiamento d’epoca. Un salto in soli sei anni dall’11 al 26 cento di studenti che si identificano in modo diverso dal tradizionale “binario” di genere non lascia indifferenti. Gli esperti del Cdc lo attribuiscono anche alla modalità diversa con cui sono state poste le domande nel 2021 rispetto al 2015, ma non basta a spiegare il fenomeno. Il grande interrogativo è ovviamente se sia l’effetto di un dibattito pubblico che rende più facile venire allo scoperto, o se non sia proprio il dibattito pubblico che sta creando nuove percezioni sull’identità sessuale tra i giovani e un incoraggiamento a scegliere cosa “va di moda”. Un dato importante da tenere presente è che la generazione Z americana parla di sesso più in teoria che in pratica rispetto alle precedenti. La percentuale di adolescenti che dichiara di aver avuto una prima esperienza sessuale prima della fine delle scuole superiori è precipitata dal 60 per cento del 1991 al 30 per cento del 2021. In un paese colpito da una devastante epidemia di solitudine, con un terzo dei ragazzi afflitti da un qualche problema psicologico e un livello di interazione tra i sessi ridotto ai minimi, i sondaggi sui liceali che si dichiarano membri della comunità Lgbtq+ andrebbero quindi presi con le molle. Come ha commentato su Twitter Andrew Sullivan, celebre “columnist” gay e antesignano di questo tipo di dibattiti, “l’unica spiegazione plausibile è che tutti adesso vogliono essere Lgbtq+, quindi perché non mentire nei sondaggi per apparire cool?”. E’ l’equivalente, sintetico e giornalistico, di quello che in ambito scientifico sostengono alcune ricerche come quella (controversa e molto dibattuta in rete) che ritiene esista una “rapid-onset gender dysphoria” (Rogd), un’esplosione della disforia di genere che avrebbe cause soprattutto sociali e colpirebbe in particolare le adolescenti, esposte a un bombardamento di contenuti online che sarebbero alla base del disagio psicologico. La Rogd non ha al momento alcun riconoscimento ufficiale, ma la comunità scientifica non nasconde di essere alla ricerca di spiegazioni per l’accelerazione del fenomeno della disforia di genere negli ultimi anni specie tra le ragazze. 

 

Dove lo scontro è ancora più acceso è sul fronte dei trattamenti e delle procedure da seguire. Rachel Levine, sottosegretario alla Salute e prima donna transgender in un governo americano, continua a ribadire che sulla “gender-affirming care” non c’è alcuna divergenza tra i professionisti della medicina e che “pediatri, endocrinologi, psichiatri, psicologi sono d’accordo sul valore di questi processi”. Ma se non è una bugia è quantomeno una sottovalutazione o una strategia politica, per cercare di rispondere all’ondata di divieti che arrivano dagli stati repubblicani. In realtà il dibattito scientifico si sta riaprendo ed è significativo che sia stata una delle più prestigiose testate progressiste, The Atlantic, a dedicare un’ampia inchiesta a come i medici americani stiano guardando con preoccupazione e grande interesse agli studi che emergono in Europa, che mettono in discussione il cosiddetto “protocollo olandese”. Cioè il percorso di accertamenti e trattamenti, fino alla chirurgia, sul quale anche gli Usa hanno basato il loro approccio al cambiamento di sesso. Di spazio per la discussione scientifica ce ne sarebbe, ma la discesa in campo della politica rischia di far replicare sul tema della disforia di genere le divisioni già viste per esempio in tema di vaccini o di gestione delle epidemie. Con l’effetto di creare ulteriori divisioni e polarizzazioni. 

 

Uno degli ambiti che mostrano i segni delle diverse visioni sui temi Lgbtq è quello della Chiesa cattolica, che può avere un peso importante nel dibattito americano come lo ha sempre avuto sull’aborto o i matrimoni gay. Il gender si preannuncia però come un altro terreno di scontro tra i vescovi e il presidente cattolico Biden, ma soprattutto tra le gerarchie ecclesiastiche americane e il Papa. La Conferenza episcopale degli Stati Uniti a fine marzo ha emesso una “Nota dottrinale sui limiti morali della manipolazione tecnologica del corpo umano”, che da più parti è stata vista come una chiusura dogmatica e senza appello a qualsiasi tipo di dialogo sulle tematiche gender. L’arcivescovo di Oklahoma City Paul Coakley, numero tre della Conferenza, ha addolcito un po’ i toni in una lettera pastorale sulla disforia di genere, riconoscendo “il bisogno di capire la difficoltà della persona di fronte a noi”, ma senza rinunciare ad “affermare che il sesso è dato e deciso da Dio”. Ci sono vescovi che la pensano diversamente, come il cardinale di Washington Wilton Gregory per il quale le persone transgender “sono nel cuore della Chiesa”. E’ evidente che, come su altri temi, si profila uno scontro tra fazioni nella gerarchia ecclesiastica americana.

 

I segnali di una intensa battaglia culturale in arrivo si moltiplicano in tutti gli ambiti e come sempre in America i più veloci ad annusare l’aria e a riposizionarsi sono i responsabili marketing delle grandi aziende. Se Disney ha scelto (per ora) di andare allo scontro in Florida con DeSantis, il colosso della birra Anheuser-Busch ha appena suonato la ritirata dopo essere finito sotto attacco per aver associato le lattine della popolarissima Bud Light a una celebre influencer transgender, Dylan Mulvaney. L’idea di proporre lattine “inclusive” con la foto di Mulvaney per strizzare l’occhio al mondo Lgbtq è costata all’azienda un boicottaggio che nel mese di aprile ha provocato un rapido calo delle vendite: -11 per cento la seconda settimane, -21 la terza, -26 la quarta settimana. I vertici sono intervenuti, hanno bloccato la campagna e messo in aspettativa la responsabile della comunicazione. “Tutto ciò che facciamo – ha detto l’amministratore delegato Michel Doukeris – dovrebbe essere legato solo alla birra. La birra sarà sempre sul tavolo quando c’è un dibattito, ma non deve essere l’oggetto della discussione”. In casa Anheuser-Busch deve aver fatto un certo effetto veder diventare virale sulla rete un video del popolare cantante country Kid Rock, un’icona del mondo della destra, che “commentava” a modo suo la campagna di Bud Light: una sventagliata di fucile mitragliatore contro una serie di confezioni della celebre birra, fatte esplodere in una pioggia di alluminio e schizzi di schiuma. Un’immagine inquietante nell’America delle stragi scolastiche e delle armi impugnate sempre più spesso anche dai giovanissimi.

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