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Il dibattito

Pagare per la propria identità. L'impero economico del queer che va abbattuto

Marina Terragni

Il rapporto perverso fra economia e desiderio, dove anche la materialità del sesso biologico scompare lasciando il posto a pregiudizi e stereotipi. Risposta a Giuliano Ferrara

Caro Giuliano, hai ragione: il “cambio di sesso” sta diventando una questione ordinaria, il transgender è “fra noi” e non si può più esitare a prenderne atto. Vorrei prendere parte alla discussione che hai sollecitato. Citando Heidegger, secondo il quale ogni epoca ha una cosa da pensare – e una soltanto – la filosofa Luce Irigaray ha affermato che “la differenza sessuale, probabilmente, è quella del nostro tempo”, ma questi esiti non li aveva previsti. Negli anni Ottanta, quando scriveva, i trans erano pochissimi sfortunati uomini – le donne erano mosche bianche – che soffrivano per il loro corpo maschile e si sottoponevano a strazianti trattamenti ormonali e chirurgici per adattare le proprie sembianze alla percezione di sé: la nostra legge 164/82 (relatrice la Dc Maria Pia Garavaglia) fu tra le prime a regolare il “cambio di sesso”. Conferma Robert Wintemute, professore di Diritto al King’s College di Londra e attivista gay che partecipò alla stesura dei “Princìpi di Yogyakarta”, decalogo che ha ispirato leggi e politiche trans nei decenni successivi: allora i transessuali erano questo, uomini che si sarebbero sottoposti alla chirurgia per il cambio di sesso. “Nessuno pensava a maschi con i genitali intatti che avrebbero voluto accedere agli spazi delle donne”.

 

Va detto che nella nostra società transgender di massa i rapporti tra trans MtF, da uomo a donna, e FtM da donna a uomo, si sono invertiti. Oggi in otto casi su dieci i minori con disforia – spesso con comorbilità psichiatriche, dall’autismo alla depressione ai disturbi post traumatici – sono ragazze per le quali la parola “lesbica” è diventata un insulto sanguinoso. Non c’è solo il movimento studentesco pro carriera alias e il festoso sostegno dei pari per ogni transizione: le famiglie devono vedersela con la martellante propaganda social, adolescenti che esibiscono con fierezza due cicatrici al posto dei seni, ferite conquistate sul campo di una vittoriosa battaglia.  Temporeggiare è la strategia di queste famiglie che si riuniscono in associazioni semi-carbonare per sfuggire allo stigma di transfobia – in Italia c’è GenerAzioneD. Guadagnare settimane o mesi peregrinando alla ricerca di quei pochi terapeuti disposti a offrire loro un supporto, perché quando ti infili nel tritacarne della cosiddetta terapia affermativa (bloccanti della pubertà) in nove casi su dieci poi prosegui con ormoni e chirurgia.

 

Nel Regno Unito dove il peak trans è stato raggiunto da tempo un gruppo di genitori di ragazze/i T farà causa al dipartimento per l’Educazione che non avrebbe fatto nulla per impedire che la gender ideology prendesse piede nelle scuole.La maggioranza femminile si spiega forse con il fatto che stare da donne in questo mondo resta ben più faticoso che viverci da uomini. Ci sono anche giovani maschi transgender, non binari o gender fluid molto diversi dai “vecchi” trans. Anche loro, osserva lo storico francese Ivan Jablonka, “esprimono una diffidenza verso il patriarcato”. Negli anni Settanta, ben prima dell’avvento della fluidity, Carla Lonzi prestava attenzione alla resistenza dei giovani maschi a identificarsi con i modelli patriarcali di virilità: “Nell’angoscia dell’inserimento sociale il giovane nasconde un conflitto col modello patriarcale”. Ma con le donne il patriarcato morente è ben più feroce. Gira un fumetto di Reality Girl Zine, titolo Why are so many girls deciding they’d rather be boys?, dove si vedono ragazze alle prese con l’obbligo della bellezza, l’omofobia interiorizzata, gli abusi sessuali e ogni sorta di gender gap. Perché devo essere una donna se mi costerà così caro? Si tratta, come ha detto qualcuna, di “scappare dalla casa in fiamme”. “Non volevo diventare un uomo” ha raccontato una destransitioner “sapevo solo di non voler essere una donna”.  Per questa strada, non voler essere una donna, siamo passate tutte: le emancipate che per prime hanno invocato la parità; le anoressiche che cercano di ridurre ai minimi il proprio corpo materno. Oggi ormoni e chirurgia offrono la soluzione – apparentemente – definitiva.

 

Negli anni Sessanta e anche prima il desiderio femminile di libertà si è espresso nella lotta contro gli stereotipi di genere: voleva dire poter significare liberamente la propria esistenza a prescindere dai ruoli che la società patriarcale aveva deciso per te. La lotta per la libera significazione di sé ha fornito gran parte del materiale da costruzione anche all’eresia queer delle origini. Judith Butler ha spinto l’acceleratore fino in fondo: non solo i ruoli sono costruiti, ma anche la materialità del sesso. La realtà del corpo perde consistenza fino a scomparire, e il primo corpo a dovere scomparire è quello della donna. Oggi, si può dire così, viviamo in un “butlerismo reale” egemonizzato dal mercato. La stessa Judith Butler aveva alluso alla mirabile capacità del business di trasformare qualunque cosa in occasione di profitto: “Le performance sovversive corrono sempre il rischio di diventare dei cliché (…) nella società dei consumi, dove la “sovversione” ha un valore di mercato”, ma aveva rapidamente lasciato cadere l’argomento. Si tratta probabilmente di questo: di un mercato che ha saputo intercettare i desideri circolanti – liberarsi dalle costrizioni di genere – e farne prodotti da banco (con l’ausilio di leggi come la surreale “Ley Trans” in Spagna e la legge tedesca in arrivo, come sempre incredibilmente proposta da Sinistra e Verdi).

 

Il marxista americano David Harvey parla “accumulazione tramite spossessamento” (accumulation by dispossession). Ciò che è sempre stato disponibile e gratuito viene requisito e diventa a pagamento. Parlare di diritto all’acqua, all’aria, a un figlio significa aver perso la libertà di accesso all’acqua, all’aria e alle proprie capacità procreative che diventano merce in vendita. Pago anche per essere una donna o un uomo, pago per la mia libera identità: ormoni, chirurgia e tutto quanto il merchandising della favolosità, con il sostegno della sinistra dirittista. Il filosofo Ivan Illich si era spinto ben oltre profetizzando (nel 1984) l’“imbroglio unisex” e l’annullamento della differenza sessuale nel neutrum oeconomicum  – “cambiamento della condizione umana che non ha precedenti”– come precondizioni necessarie all’espansione capitalistica: la differenza sessuale è un ostacolo allo sviluppo in quanto segno caratteristico della civiltà tribale e contadina. Allora forse il lavoro da fare, sempre che lo si voglia fare, è strappare il desiderio di essere ciò che si vuole essere alle risposte di un mercato neo patriarcale che ha fatto del queer un impero ideologico ed economico. Perché la libertà dalle costrizioni imposte dagli stereotipi di genere possa essere disponibile e gratuita per tutte e tutti.

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