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Bandiera bianca

Rileggere Aristotele per capire Sgarbi

Antonio Gurrado

La filosofia aristotelica rivela l'ipocrisia di chi vorrebbe vivere nell'iperuranio come Platone e non accetta che un sottosegretario possa percepire delle consulenze

Vogliamo vivere nel mondo di Platone o in quello di Aristotele? Ditino puntato verso l’iperuranio o palmo concretamente parallelo a questo suolo? La faccenda delle consulenze percepite da Vittorio Sgarbi, mentre già ricopriva il ruolo di sottosegretario alla Cultura, affonda le radici in un dibattito classico sul bilanciamento fra l’interesse pubblico e quello privato. Da una parte infatti c’è la Repubblica, nel senso di dialogo in dieci libri, in cui Platone argomenta che per difendere l’interesse di tutti chi governa la polis non debba possedere nulla, né oggetti né affetti; ed è per questo che destina i ruoli di comando esclusivamente ai filosofi, nel cui novero oggi potremmo agevolmente includere anche Vittorio Sgarbi. Dall’altro versante c’è la Politica, nel senso di trattato in otto libri, in cui Aristotele controbatte che la principale caratteristica degli uomini, e l’unico motore della loro attività, sono il proprio e il caro, ovvero ciò che si possiede e coloro ai quali si tiene; pertanto l’interesse pubblico può essere perseguito solo coesistendo con l’interesse privato. Che governino i filosofi o gli storici dell’arte, non ci si può aspettare che diventino asceti né pretendere che rinuncino ai vantaggi che derivano dalle proprie capacità specifiche: sarebbe l’ipocrita illusione di vivere in un’utopia. Aristotele l’aveva capito già duemilatrecento anni fa; noi potremmo arrivarci faticosamente oggi, grazie a Vittorio Sgarbi. Chi l’avrebbe mai detto.

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