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Bandiera Bianca

Più mani bioniche per tutti? Quel che a Cambridge non dicono

Antonio Gurrado

All'università inglese stanno progettando e realizzando degli arti bionici per incrementare l'abilità di ogni essere umano. Ma siamo così sicuri che servano ad affrancare l'uomo dalla tecnologia?

All’università di Cambridge stanno ipotizzando, ma va’, stanno già progettando e realizzando degli arti bionici, non per sopperire a disabilità causate da genetica o incidenti, bensì per incrementare l'abilità con le mani di ogni essere umano. All’università di Cambridge ritengono che a chiunque farebbe comodo un ulteriore pollice opponibile, una terza mano, un braccio in più che sbuchi da chissà dove: pensate ai camerieri che devono portare tutti quei piatti, pensate ai chirurghi che devono circondarsi di tutti quegli assistenti, pensate ai genitori con tutti quei figli da afferrare al contempo. All’università di Cambridge ricordano lo stigma che ancora nel secondo dopoguerra le classi più basse appuntavano su chi portasse gli occhiali, lo stigma che ancora oggi è duro a morire sui mai troppo lodati apparecchi acustici; pertanto vogliono superare lo stigma istintivo nei confronti dell’implementazione del corpo umano standard.

All’università di Cambridge reputano infatti che sia l’uomo in sé a essere limitato, e che un pollice o una mano o un braccio d’avanzo ormai sono necessari per tener dietro a tutte le cose della vita che ci fanno sentire inadeguati. All’università di Cambridge sono insomma convinti che l’impianto della tecnologia sia l’unica soluzione per consentire all’uomo di stare al passo con tutta la tecnologia che lo opprime, anche perché – a pensarci bene – dall’invenzione dello smartphone abbiamo tutti costantemente un pollice, una mano, un braccio in meno.

Alla fine però temo che questo proliferare di arti bionici, che magari fra cent’anni sembreranno normali, consentirà al genere umano soprattutto di possedere più telefonini, spedire più messaggi, scattarsi più selfie: è a questo che secondo me non hanno pensato, all’università di Cambridge.

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