Una cella del carcere di San Vittore a Milano (foto LaPresse)

Quale futuro per il carcere di San Vittore e i suoi detenuti?

Chiara Sirianni
Prosegue il dibattito sulla proposta del governo di vendere alcuni istituti penitenziari, tra cui quello milanese, e ricostruirli in periferia. Parlano al Foglio Luigi Pagano (vicecapo del Dap) e Franco Corleone (garante dei detenuti della Toscana).

Un ostello di lusso. Un museo della memoria. Un maxi centro commerciale. Una casa di detenzione destinata alle donne, ai soggetti deboli. O nessuna di queste ipotesi. Il destino del carcere milanese di San Vittore è incerto. Il governo vorrebbe venderlo, insieme con altri penitenziari, alla Cassa depositi e prestiti, che con la sua area real estate è specializzata nel valorizzare immobili. Vero è che di un eventuale spostamento di “San Vitùr”, collocato in una zona centralissima della città, si dibatte – inutilmente – da decenni. Ma se il tema torna, a pochi giorni dai ballottaggi delle elezioni amministrative, è anche per via di quella parte di sinistra meneghina che si identifica volentieri in Giuseppe Sala.

 

In passato l’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, ha ribadito quanto San Vittore fosse “un quartiere di Milano, o meglio, come ricordava il cardinale Martini, il cuore di Milano”. Un cuore che però è stato spesso malato, in condizioni difficili. L’edificio risale al 1879 ed è il classico Panopticon citato da Foucault nel suo “Sorvegliare e punire”: al centro si trova una rotonda e lungo la circonferenza, su ciascun piano, le celle con le sezioni a forma di raggio. Due raggi sono chiusi: vanno interamente ristrutturati. Per Alessandra Naldi, Garante dei diritti delle persone private della libertà per il comune di Milano, a oggi i detenuti sono 1.000, a fronte di una capienza di 600.

 

Nonostante tutto, la prima della Scala si trasmette in diretta qui, su un maxi schermo a disposizione dei detenuti e delle autorità. Periodicamente nel cortile della sezione femminile si organizzano degli aperitivi aperti ai visitatori. E’ un patrimonio umano che rischia di andare disperso? “Sono personalmente affezionato alla struttura, ma non ne farei una guerra ideologica”, dice al Foglio Luigi Pagano, che prima di essere vicecapo del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è stato per tanti anni il direttore del carcere di piazza Filangieri. “Se resta in città è fondamentale ristrutturare. Se si vuole portare in periferia, si garantiscano servizi di collegamento. Credo sia cruciale focalizzarsi non tanto sulla struttura in sé, quanto piuttosto sul senso della pena”.

 

Se ci si propone di riformare la pena, non si può non ripensare anche lo spazio penitenziario. Un principio emerso anche nel corso dei tavoli di lavoro, voluti e organizzati dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, che hanno visto riuniti esperti e operatori del settore per definire una migliore fisionomia del carcere. “Si è parlato di modelli possibili, ragionando di come l’architettura possa dare un senso allo spazio, anche detentivo”, dice al nostro giornale Franco Corleone, già sottosegretario alla Giustizia e Garante dei detenuti della Toscana, e attento studioso delle interazioni fra urbanistica e politiche penitenziarie.

 

La geografia carceraria italiana è storicamente molto diversificata. Alcune strutture sono state chiuse per il bene di tutti, come il carcere di Savona o quello di Favignana. Altre aree sono state dismesse con successo. A Saluzzo (Cn) il carcere degli ergastolani è diventato un museo della memoria, completo di pinacoteca. A Firenze l’ex carcere di Santa Verdiana ospita una delle sedi della facoltà di Architettura. E San Vittore, che futuro deve attendersi? “Sarebbe una ferita insanabile se venisse destinato ad altro, per esempio a un albergo”, dice Corleone. Se l’architettura è datata, si può attuare un recupero significativo. Per esempio cambiando, appunto, la fisionomia della pena. Spiega Corleone: “Potrebbe essere riconvertito a un luogo di detenzione leggera. Di passaggio, verso il ritorno nella società civile: una casa della semilibertà, per gli ultimi anni di reclusione. Una struttura aperta, all’interno della città: magari con dei punti vendita dei tanti prodotti realizzati nei penitenziari italiani. Va vista con favore ogni idea intelligente che sia in grado di rendere l’area un reale punto di contatto fra l’universo carcerario e i liberi cittadini”.