Congresso dell'Associazione Nazionale Magistrati (foto LaPresse)

Perché la magistratura blocca le riforme della giustizia? C'è traffico

Renzo Rosati
Vogliamo credere che giudici e pm non facciano traffico delle loro influenze? Una cronistoria

Roma. Traffico d’influenze: il reato contestato dalla procura di Potenza per l’affare del petrolio è essenzialmente una storia di pressioni e lobbying; telefonate inopportune e comportamento discrezionale dei poteri dello stato. Il reato in sé, come ha detto al Foglio il giurista Tullio Padovani, “è una boiata pazzesca” in quanto dai contorni vaghi e contraddittori. Bene, lasciando perdere le tecnicalità – e ovviamente i guadagni pecuniari previsti dal reato –  vogliamo credere che giudici e pm non abbiano mai fatto e non facciano traffico delle loro influenze? Che le loro “indipendenza, imparzialità e terzietà” fissate dall’articolo 112 della Costituzione siano sempre state osservate?

 

Cominciamo proprio dalla fine: Magistratura democratica, la corrente togata di sinistra, si è schierata con largo anticipo con il comitato del No per il referendum costituzionale di ottobre, al cui successo Matteo Renzi subordina la permanenza a Palazzo Chigi. Se mai dovesse capitare un’inchiesta di un magistrato di Md su un qualche volto vicino al governo potremmo essere certi di essere di fronte a una totale garanzia di imparzialità? E quando il segretario dell’Anm lucana, dottor Salvatore Colella, Md, attacca il governo possiamo essere certi che la sua posizione non sia dettata da questioni anche ideologiche? Proseguiamo. Il 28 ottobre 2014 l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano veniva ascoltato al Quirinale dall’intera corte di Palermo che indagava sulla trattativa stato-mafia, richiesta formalmente presentata dalla difesa di Totò Riina ma caldeggiata soprattutto dal gruppo di pm guidato da Nino Di Matteo, peso massimo dell’inchiesta, degno erede dell’indimenticato collega, Antonio Ingroia. Telefonate, intercettazioni indebite, la morte di crepacuore del consigliere di Napolitano, Loris D’Ambrosio; ancor più il Colle sotto botta per anni. Fu o no quello un potere discrezionale messo in campo dai poteri dello stato?

 


Il plenum del Csm (foto LaPresse)


Si trattò, ai tempi della battaglia tra Napolitano e la procura di Palermo, del momento di maggiore tensione istituzionale prodotto dal protagonismo giudiziario in anni recenti. In quelli precedenti, e tralasciando il non trascurabile avviso di garanzia del 1994 a Silvio Berlusconi a mezzo Corriere della Sera – con la triangolazione di telefonate (quelle non intercettate) tra procura di Milano, Via Solferino e il presidente Oscar Luigi Scalfaro – di “traffico” ce n’è stato anche intorno ai (timidi) tentativi di riforma della magistratura del primo governo Prodi, ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick: “Un governo di sinistra vuol fare cose che neppure Craxi”, insorse l’allora pool di Mani pulite.

 

Passano pochi anni, torna in sella il Cav. il quale subisce due bocciature: il Csm si rivolge direttamente al Quirinale dove c’è Carlo Azeglio Ciampi, e così cadono prima la legge Castelli, poi la conferma di Pier Luigi Vigna alla Direzione nazionale antimafia, quindi il progetto di riforma dello stesso Consiglio superiore. Nel 2006 ancora il Csm boccia l’indulto del governo Prodi. Nel 2009 è tornato il Cavaliere e di nuovo il Csm blocca la riforma del processo penale by Angelino Alfano, sulla quale pure c’era la garanzia di Napolitano.

 

E veniamo a Renzi. Il benvenuto glielo danno nel 2014, quando l’Associazione nazionale magistrati definisce “di scarso respiro” e “punitive per l’indipendenza dell’ordine giudiziario” le riforme annunciate sulle intercettazioni, sulla durata dei processi e sulla prescrizione. Un anno dopo Rodolfo Sabelli, presidente dell’Anm, nella relazione annuale al capo dello stato, pronuncia una scomunica ancora più netta: “Questo governo è più attento alle intercettazioni che alla lotta alla mafia”. I giudici sono anche irritati con il premier per la rottamazione di 15 giorni di ferie rispetto ai comuni mortali (da 45 a 30): però stavolta il ricorso alla Corte costituzionale dà loro torto. Uno dei pochi insuccessi, che si ripete a metà sui “pensionamenti forzati”, a 70 anni, oggetto di audizioni, trattative parlamentari e fitto scambio di email, che alla fine strappa per alcuni il limite di 72 anni, sempre a difesa dell’autonomia della magistratura. Vogliamo chiamarlo lobbying? Pressioni istituzionali? Traffico, in senso lato, di influenze? Fatto sta che anche le riforme renziane della giustizia sono tutte ferme. Sono bloccate nel traffico.