“Il Corriere? Normalmente non lo leggo…”, disse il numero uno di Fca, Sergio Marchionne, rispondendo a una domanda sull'editoriale di Ferruccio de Bortoli critico con Renzi, il 24 settembre 2014

Ci voleva Marchionne

Salvatore Merlo
Ha sbloccato la fusione tra Rep e Stampa e ha convinto la famiglia Agnelli-Elkann a fuggire da Rcs. Il futuro di Fiat e la scommessa del Corriere: mai più come l’Onu.

Quando Luca Cordero di Montezemolo era presidente della Fiat, in quel delicato passaggio che per l’azienda di Torino fu la morte di Umberto Agnelli, non passava giorno, non c’era riunione del Consiglio d’amministrazione in cui non si alzasse in piedi qualcuno degli azionisti chiedendo, a un certo punto, invariabilmente: ma perché stiamo ancora nel Corriere della Sera?
E si trattava in effetti di un interrogativo per niente capzioso, fondato su una precisa conoscenza delle strategie aziendali, della visione globale e americana portata in Fiat da Sergio Marchionne, dell’analisi dei nuovi orizzonti che si sarebbero presto trasformati in concretissimi fatti: la ragione sociale trasferita in Olanda, la quotazione a Wall Street, gli accordi strategici con altre major americane (adesso, chissà, la General motors), la riduzione dell’Italia, da feudo e centro pulsante del potere Fiat, a semplice contenitore di stabilimenti produttivi, poco più o poco meno del Brasile o della Polonia. E insomma, alla Fiat-Chrysler, società quotata a New York, a che serve il Corriere di Via Solferino, il giornale di Milano?, chiedevano gli azionisti.

 

Eppure, ogni qual volta gli veniva posta la domanda, Marchionne, senza sbavature nell’imprevisto, ricorreva alla medesima asettica formula, due parole, pronunciate con l’aria di chi non ammette discussioni: “Investimento strategico”, diceva, serioso e indecifrabile. Tuttavia, sciolta la riunione del Consiglio d’amministrazione, dismessa l’aria formale del gran consiglio, il manager col golfino blu confessava, forse con sufficienza, o forse con una sorta di divertimento segreto: “E’ il ragazzo, è lui che si diverte a giocare con il Corriere”. E insomma, secondo la versione di Marchionne, era John Elkann a volere il Corriere, era l’erede designato da Giovanni Agnelli ad essersi intestardito. Dunque con condiscendenza, placida insolenza e forse anche con un pizzico di furbizia (la partecipazione azionaria nel Corriere è servita alla Fiat in una fase complicata nei rapporti con il potere politico e con i sindacati, e Marchionne lo capiva benissimo), il manager anglo-abbruzzese considerava il giornale di Milano, non meno della Stampa, come l’ultimo barbaglio d’un mondo al crepuscolo: casa Agnelli, appunto, un universo sottoposto alla tirannia del tempo, con le sue minacciose lancette, la crisi dell’auto e la voglia di disimpegno, la morte dell’Avvocato, la crisi di un sistema dinastico e industriale che aveva fatto nel bene e nel male la storia d’Italia, ma che si era esaurito.

 

Così Marchionne, all’inizio, un po’ copriva, ma pure liquidava con ilare impazienza la curiosità del giovane erede Agnelli per il grande giornale di Via Solferino. Tuttavia, quando poi le generosità, e le velleità, di Elkann al Corriere si sono brutalmente scontrate con la realtà dei fatti – una compagine azionaria litigiosa e ingovernabile, l’opposizione irriducibile, emotiva e ingombrante di Diego Della Valle (“quel poveretto di Jaki non ha perso l’occasione di ricordare che è un imbecille”. Risposta: “Lui pensi a Tod’s, la sua azienda nana”), l’indebitamento inscalfibile di Rcs, il fallimento dell’amministratore delegato Scott Jovane, e infine la partita (perduta) della direzione del quotidiano che Elkann avrebbe voluto affidare a Mario Calabresi magari fondendo Corriere e Stampa – a quel punto, perso anche il gusto per “il gioco”, come diceva Marchionne, bruciato un aumento di capitale da 420 milioni di euro, è stato più facile insistere con Elkann, e insomma spingere per fargli mollare non solo il Corriere ma anche la Stampa.

 

“La nostra proprietà è una specie di Consiglio di sicurezza dell’Onu. Si confrontano poteri deboli, contraddittori, taluni persino inconsistenti. Diciamo che il Corriere ha molti azionisti, ma non ha un editore”, si lamentava a febbraio del 2014 Ferruccio de Bortoli, ancora direttore del Corriere, parlando con il Foglio. Ed è in quel momento che Elkann matura la decisione di lasciar perdere, e di mollare anche la suggestione sentimentale e fantasiosa di ricalcare vita e abitudini del nonno Gianni Agnelli, cui lui, ascoltatore un po’ ripiegato e silenzioso, lui che ha imparato prima il francese e solo dopo l’italiano, in realtà non assomiglia affatto. E l’ultima spinta, quella decisiva, l’ha data, come sempre, Marchionne. Negli ultimi tempi, raccontano amici di famiglia, vecchi frequentatori del mondo Agnelli, l’amministratore delegato di Fiat-Chrysler aveva preso a muoversi attorno ad Elkann in cerchi di apprensione sempre più stretti: l’azienda è alla ricerca d’un partner industriale, di un’altro produttore d’auto con il quale associarsi, e forse fondersi. E che i nuovi potenziali alleati siano i francesi di Citroen o gli americani di General Motors, quella partecipazione nei quotidiani italiani, che perdono soldi a rotta di collo e non servono a un’azienda globale e delocalizzata come Fiat, è in entrambi i casi una palla al piede irragionevole e inspiegabile, sia in lingua inglese sia in lingua francese. Dunque ecco la cessione delle azioni Rcs, ecco l’accordo concluso in un lampo con la Cir di Carlo e Rodolfo De Benedetti: una vendita (della Stampa) abilmente mascherata da una minima partecipazione azionaria di Elkann alla nuova azienda che farà da editore unico della Repubblica e del vecchio quotidiano di Torino, e che, a scanso di equivoci su chi sia l’editore, vedrà al comando Monica Mondardini, l’amministratore delegato di Cir e del Gruppo Espresso.

 

Ma mollando il Corriere, non senza calcato disprezzo e delusione personale (“con questa operazione giunge a compimento il ruolo svolto, prima da Fiat e poi da FCA, per senso di responsabilità, nel corso di oltre quarant’anni, che ha permesso di salvare il Gruppo editoriale in tre diverse occasioni, assicurando le risorse finanziarie necessarie a garantirne l’indipendenza e quindi a preservarne l’autorevolezza”) Elkann ha pure liberato il giornale di Via Solferino: lo ha reso territorio contendibile, ha insomma spurgato la palude, sbloccato quell’impasse rissaiola che aveva visto coalizzarsi contro di lui tutti gli altri azionisti, dalla banche a Marco Tronchetti Provera fino a Diego Della Valle e Urbano Cairo, e persino il vecchio Giovanni Bazoli, di cui raccontano: “Si considerava ‘il’ socio di Torino, e dunque è rimasto male per come Elkann ha gestito la questione di Scott Jovane e anche l’addio lungo di De Bortoli”.

 

Chiarezza, dunque, al Corriere. Pare. E infatti mercoledì, alla notizia che Fiat avrebbe ceduto al mercato le sue quote azionarie, la Borsa ha sorprendentemente festeggiato la novità e il titolo Rcs, con un balzo positivo che tuttavia ieri, passata l’euforia iniziale, di fronte alla domanda “e adesso che succede?”, è repentinamente rientrato (Rcs ha chiuso a -8 per cento). E così, a ottantatrè anni, tocca di nuovo a Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo e della finanziaria Mittel, mettere ordine in casa Rcs, con i metodi di sempre: un accordo tra i soci rimasti (e senza Confindustria, che respinge l’idea di una fusione con il Sole 24 Ore), pacificati, soddisfatti, quasi felici per l’addio del nemico Elkann, cui Montezemolo, anni fa, pare avesse suggerito: “Lavora di simpatia con gli altri azionisti. Mettili attorno a un tavolo. Parla, usa la diplomazia e il sorriso, insomma fregali”, tutto un genere di capacità empatiche che Montezemolo maneggia per natura, che Bazoli possiede in virtù di una sua autorità fisica immediata e imponente, ma che non appartengono al corredo delle qualità di Elkann, che ha invece il dono della serietà e d’un puntiglio che spesso lo rende indecifrabile e talvolta, forse per malinteso, anche antipatico. Elkann tolse sostanzialmente il saluto a De Bortoli dopo che il Corriere scrisse un articolo sulla lite familiare, finita in carta bollata e tribunale, con sua madre Margherita Agnelli. E mai perdonò Giulio Anselmi, allora direttore della Stampa, per come aveva trattato la storia di suo fratello Lapo, nel 2005. Tanto che pose un veto su Anselmi, che sarebbe potuto diventare direttore del Corriere, appena un anno fa.

 

Ed è insomma Marchionne il motore immobile della vendita di Stampa e Corriere, la goccia cinese che ha scavato le – sempre più deboli – resistenze di Elkann, che lo ha sospinto all’accordo con De Benedetti, al termine di un gioco di futilità introduttive e bruschi temporeggiamenti cominciati nel 2012 tra questi due uomini, Elkann e l’Ingegnere, l’orso e il ballerino, che sembrano fatti per non capirsi, e infatti mai, prima di mercoledì, prima della firma dell’accordo studiato e contrattato da Rodolfo De Benedetti e Monica Mondardini, si erano mai capiti. Tra le due aziende e le due famiglie, persino tra i due giornali, c’è sempre stato molto rispetto ma pure concorrenza.

 

[**Video_box_2**]Può darsi che si tratti di ricostruzioni partigiane, prive di quelle sfumature di senso che sempre avvolgono le decisioni importanti, eppure quando Ezio Mauro lasciò la Stampa per Repubblica, chi c’era ricorda che l’Avvocato lo considerò un passaggio al nemico, casa del cognato Carlo Caracciolo, sì, ma pur sempre il giornale di Eugenio Scalfari, il grande giornalista che aveva definito Agnelli “Avvocato di panna montata”, facendolo arrabbiare. E quando John Elkann pensionò Gianluigi Gabetti, pare che l’Ingegnere storcesse il naso per come era stato messo via, dal suo punto di vista senza sufficienti riguardi, un uomo che aveva dedicato la vita agli Agnelli e alla Fiat. Come pure, quando Montezemolo fu allontanato bruscamente dalla Ferrari, De Benedetti disse al Foglio: “Si è forse persa per strada un po’ di eleganza. Montezemolo può non piacere per tanti motivi, ma bene o male ha servito per trentadue anni l’azienda e la famiglia. La Ferrari l’ha creata lui. Ed è un’azienda spettacolare. I modi sono importanti nella vita, sono civiltà. E l’etichetta è purtroppo saltata. Anche questo, un po’, è lo spirito del tempo”.

 

Ma poiché il business alla fine non richiede che ci si stimi troppo, e poiché non si tratta di un matrimonio d’amore, né di affinità elettive tra famiglie imprenditoriali di Torino, ma piuttosto, prosaicamente, di un rogito d’acquisto (da parte di De Benedetti) e di un contratto di vendita (da parte di Elkann), l’affare si è chiuso, e con grande soddisfazione di tutti i contraenti, a quanto pare: sia quelli che, sospinti dai successi di Marchionne, escono dall’Italia e dal suo salottino (Fiat), sia quelli che ora conquistano una posizione dominante nell’ammaccato ma sempre decisivo settore dell’informazione italiana, i De Benedetti.

 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.