Foto LaPresse

Tra virgolette

Altro che insediamenti. Non esiste “pace” con chi continua a sentirsi “nemico”

Bret Stephens
"Nella storia dei cliché politici, ce n’è mai stato uno così fuorviante come la battuta secondo la quale ‘si fa la pace con i nemici, non con i propri amici’?”. L’editorialista Bret Stephens s’interroga così sul quotidiano americano Wall Street Journal, e poi risponde: “Non si fa la pace con i nemici".

"Nella storia dei cliché politici, ce n’è mai stato uno così fuorviante come la battuta – attribuita in versione lievemente differente al primo ministro israeliano martire Yitzhak Rabin o all’epico ministro della Difesa Moshe Dayan – secondo la quale ‘si fa la pace con i nemici, non con i propri amici’?”. L’editorialista Bret Stephens s’interroga così sul quotidiano americano Wall Street Journal, e poi risponde: “Non si fa la pace con i nemici. Si può raggiungere la pace soltanto con degli ex nemici, vuoi perché li hai sconfitti (come le potenze dell’Asse nella Seconda guerra mondiale), vuoi perché essi stessi collassano (come l’Unione sovietica dopo la caduta del Muro di Berlino), vuoi infine perché essi ti hanno sconfitto e tu sei comunque in grado di trovare un accordo da una distanza di sicurezza (vedi il Vietnam). In rare e preziose occasioni, entrambe le parti realizzano che i loro interessi sono garantiti al meglio da un accordo negoziato cui tenere fede. Fu questo il miracolo del 1977, quando il presidente egiziano Anwar Sadat volò in Israele per dimostrare che accettava sinceramente il diritto di esistere dello stato ebraico. Ha pagato quel gesto con la propria vita”.

 

“Per gli ultimi 22 anni, Israele ha tentato di raggiungere un obiettivo senza precedenti: fare la pace con un nemico che non dimostra alcun interesse a diventare un ex nemico. Daniel Polisar, scienziato politico israeliano, ha recentemente pubblicato un affascinante studio sulla rivista Mosaic, sintetizzando 330 sondaggi dell’opinione pubblica palestinese negli anni. ‘Quando agli intervistati si chiede se l’eventuale uso di armi chimiche o biologiche da parte degli israeliani contro i palestinesi costituirebbe un atto di terrorismo, il 93 per cento dice ‘sì’ – osserva Polisar – Ma quando la stessa domanda viene posta sull’eventuale uso di armi di distruzione di massa da parte dei palestinesi contro gli israeliani, soltanto il 25 per cento lo definirebbe ‘terrorismo’”. Ancora: “Secondo un sondaggio del 2011, il 61 per cento dei palestinesi ritiene moralmente giusto assegnare alle strade il nome di attentatori suicidi palestinesi. Nel dicembre 2014, il 78 per cento dei palestinesi ha espresso sostegno ai tentativi di pugnalare o investire con l’automobile gli israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme”.

 

[**Video_box_2**]“Per quanto riguarda l’ipotesi di condividere il territorio, soltanto il 12 per cento dei palestinesi è d’accordo con l’idea che entrambi, ebrei e palestinesi, hanno il diritto a quella terra”. “La maggior parte dei palestinesi ritiene anche che tra 30 o 40 anni Israele non ci sarà più, perché ‘la resistenza araba o islamica lo avrà distrutto’. Che senso avrebbe rinunciare, attraverso dei negoziati, a qualcosa che è tuo di diritto oggi e che sarà tuo di fatto domani?”. Ha detto di recente Ben Rhodes, numero due per la Sicurezza nazionale dell’Amministrazione Obama: “Per Israele, più aumenta la costruzione di insediamenti, più diminuisce la possibilità di raggiungere un accordo di pace”. Risponde a distanza Stephens: “Sarebbe bello se a Israele bastasse smantellare gli insediamenti per ottenere la pace. E perfino più bello se il presidente americano biasimasse meno le politiche abitative di Israele rispetto a una cultura politica palestinese così intenta nell’assassinio di ebrei”.

Di più su questi argomenti: