Raffaele Cantone (foto LaPresse)

S'ode un funesto frusciar di toghe stringersi attorno all'esecutivo

Renzo Rosati
Conseguenze prevedibili degli eccessi da “cantonismo”. E’ dunque della bazzecola di 35 miliardi di euro, poco meno dell’intero deficit concesso all’Italia, flessibilità compresa, il conto che la Corte costituzionale può presentare al governo il 23 giugno, sentenziando sul blocco dei contratti pubblici - di Renzo Rosati

Roma. E’ dunque della bazzecola di 35 miliardi di euro, poco meno dell’intero deficit concesso all’Italia, flessibilità compresa, il conto che la Corte costituzionale può presentare al governo il 23 giugno, sentenziando sul blocco dei contratti pubblici. Questa è la stima dell’Avvocatura dello stato, oltre a una ricaduta strutturale – tra rinnovi, trattamenti accessori, progressione delle carriere, vacanze contrattuali e via andare – che il ministero dell’Economia valuta in 13 miliardi l’anno dal 2016. Non si sa se finirà come per l’indicizzazione delle pensioni (ricorsi accolti con arretrati, impatto minimizzato dall’esecutivo, nuovi ricorsi annunciati), oppure per la Robin tax (ricorso accolto ma senza arretrati), o per le cartelle esattoriali firmate da dirigenti non assunti per concorso (cartelle annullate, buco non ancora quantificato): è ormai impossibile per i due poteri, legislativo ed esecutivo, prevedere cosa deciderà quello giudiziario al suo massimo livello. Per dire, in Costituzione c’è l’articolo 81 sull’obbligo di equilibrio di bilancio, ma proprio il presidente dei giudici costituzionali, Alessandro Criscuolo, il cui voto doppio fu decisivo sulle pensioni, dice che non è compito loro “ma di altri organi dello stato” preoccuparsi di evitare il default. Conseguenza: l’azione del governo, che a sua volta ha addosso gli occhi dell’Europa e dei mercati (en passant, il 12 Moody’s si occupa del rating italiano, e c’erano voci di promozione; adesso chissà) è in piena sindrome da paralisi giudiziaria. E fosse solo la Consulta.

 

Ricordate le intemerate rigoriste della Corte dei conti? Bene, ascoltati alla Camera sulla riforma della Pubblica amministrazione, i magistrati contabili fanno lobby contro il ruolo unico dei dirigenti previsto per garantire flessibilità almeno tra gli alti burocrati (e qualche clientela in meno), e già che ci sono chiedono garanzie economiche: diversamente “si infligge un vulnus all’autonomia”. In parallelo l’Associazione magistrati e la Cassazione chiedono il rinvio di due o tre anni dell’età di pensionamento delle toghe, fissata a 71 anni: “Si rischia il caos negli uffici giudiziari”. La leggina, anzi il decreto, però non riguarderebbe solo qualche procura di prima linea, ma andrebbe estesa su fino ai Tar (quelli che dovevano essere aboliti), al Consiglio di stato, alle stesse toghe di ermellino. Intanto riprende la campagna di “Mafia Capitale”, impagabile staffetta della vicenda degli impresentabili escogitata dall’Antimafia by Rosy Bindi.

 

Se tutto questo frusciar di toghe non è una tenaglia che, dai conti pubblici alle anticamere parlamentari fino alle manette e alle intercettazioni, si stringe di nuovo intorno alla politica e all’esecutivo, dite che altro è. Lontani sono i tempi del premier che rottamava le maxi ferie dei giudici. Del resto a seminare il terreno è stato pure Renzi, inventando lo zar Cantone, commissari alla legalità in ogni dove, codici etici per ogni Asl, norme ultrà sull’ambiente, sui bilanci societari, sulla class action. Ora lo stesso Raffaele Cantone arretra di fronte alla Bindi, mentre il governo sbraca in Parlamento e consegna alle corti la famosa agenda.

 

Ognuno sceglie la corda, pardon la cravatta, con cui impiccarsi.

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