Hillary Clinton (foto LaPresse)

Lo scandalo delle email spinge il carro eterogeneo degli anti Clinton

Hillary usava un account email personale per intrattenere rapporti di lavoro quando era segretario di stato, questa l’accusa ridotta ai minimi termini. Messaggi, server e una certa Diane Reynolds.

Roma. I repubblicani si fregano le mani nell’attesa del prossimo articolo dei clintonologi del New York Times, i democratici si contorcono nervosi in cerca di una linea difendibile, la Camera ordina un’inchiesta, il dipartimento di stato giura che farà tutto ciò che potrà appena potrà, Hillary Clinton sotto pressione alimenta il fuoco polemico con cinguettii ambigui: “Voglio che il pubblico veda le mie email. Ho chiesto al dipartimento di stato di verificarle. Dicono che le controlleranno per la pubblicazione al più presto”. La Casa Bianca, tanto per aggiungere un’oncia di confusione, si smarca facendo sapere – ma senza dirlo – che di questa storia delle email private di Hillary per aggirare i sistemi del governo e di server conservati nel tinello di casa Clinton non ne sapeva nulla. Basta un’offensiva di qualche giorno per far girare il segnavento della politica. Addirittura la morta gora delle precandidature democratiche verso la presidenza si è improvvisamente rianimata: nel contesto della ramificata offensiva contro Hillary, la rinuncia dell’ex governatore del Maryland, Martin O’Malley, a una corsa appetibile verso un seggio del Senato appare come un indizio inequivocabile delle ambizioni presidenziali, e in fondo a sinistra Elizabeth Warren, guerriera antisistema, fa capolino sul proscenio nonostante abbia fin qui spiegato in tutte le forme che quella pièce politica non le interessa. Sono congetture e suggestioni, si capisce, ma di certo c’è che l’inchiesta ad aggiornamento continuo del Times ha messo in moto un carro anticlintoniano in cui molti salgono, ciascuno animato da calcoli e ragioni proprie. Alla destra che da oltre due anni cerca di inchiodare Hillary alle sue responsabilità sul nefasto attacco al consolato di Bengasi non pare vero che sia il baluardo dell’establishment liberal a offrire il canovaccio su cui improvvisare. E questo, invece di tirare via la mano, getta altri sassi.

 

Hillary usava un account email personale per intrattenere rapporti di lavoro quando era segretario di stato, questa l’accusa ridotta ai minimi termini. Potrebbe sembrare un vizio di forma, ma non lo è: una legge impone a chi ricopre cariche pubbliche di usare il sistema ufficiale, in modo che le comunicazioni siano sicure e soprattutto archiviabili, a beneficio dell’intelligence, dei posteri, dei giornalisti, degli storici e anche degli elettori, che nell’èra della trasparenza vorrebbero avere accesso a tutte le informazioni sui candidati alla presidenza, fatte salve per quelle poste sotto segreto. Scott Gration, ex ambasciatore americano in Kenya, è stato costretto alle dimissioni per aver fatto montare, nel bagno dell’ambasciata, una connessione internet parallela a quella istituzionale. Hillary, invece, usava l’ormai famoso dominio clintonemail.com per comunicare con colleghi e interlocutori diplomatici, per gestire questioni legate alla fondazione Clinton, per organizzare il matrimonio della figlia e via dicendo. Dicono i clintonologi che anche Chelsea aveva un indirizzo legato a quell’account, ma sotto il nome Diane Reynolds, quello che usava per prenotare le stanze d’albergo, e pure Huma Abedin, consigliere e figlia informalmente acquisita, era membro del club esclusivo della mail schermata da occhi indiscreti.

 

Tutte le informazioni transitavano al di fuori dei canali del dipartimento di stato, finendo in un server nella magione clintoniana di Chappaqua, e per questo Hillary incappa in una tagliola logica quando spiega via Twitter che il dipartimento di stato rivedrà le email e le archivierà come la legge prevede: Foggy Bottom non ha accesso diretto a quei messaggi, ma soltanto alle 55 mila pagine che i consiglieri clintoniani hanno passato ai funzionari del ministero. Se abbiano effettivamente passato tutto quello che c’era nei server o abbiano invece accuratamente selezionato cosa trattenere e cosa sottoporre non è dato sapere. Ma tanto basta per scatenare gli istinti anticlintoniani che albergano in molti cuori, anche a sinistra, e basta dare un’occhiata all’enorme quantità di fonti anonime del giro clintoniano che distribuiscono piste e depistaggi ai cronisti per capire che la vena di animosità è trasversale. Di contenuti imbarazzanti o sconvenienti per ora nemmeno l’ombra. Soltanto un generale senso che la ubercandidata alla presidenza a un passo dall’annuncio stia difendendo con metodi impropri la sua House of Cards. A volte basta la suggestione di un server per cambiare l’inerzia politica.

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