Mussolini e Farinacci, Craxi e i socialisti, Berlusconi e Antonio Martino, poi dipietristi e pentastellati, i forconi perfino. Adesso il Matteo fiorentino e forse l’Isis

Le marce su Roma

Stefano Di Michele

Come una Babilonia accasciata sul Lungotevere, la Capitale si lascia invadere ma poi ti sputa via. Dai barbari nordici ai fascioleghisti passando per il Duce e il Cav.

“O vedi? Semo tornati su ’a strada ferrata. E mo’ bisogna decide, sa: o Roma, o Orte”.
Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi in “La marcia su Roma”, regia di Dino Risi

 

Come vocianti sorelle cechoviane, dai ridotti della Padania ai deserti libici, dalle vallate bergamasche all’angiporto di Rotterdam, dal fascio del Terzo millennio (quelli, mania della grandezza sempre!) all’affratellamento italico meloniano a scartamento più ridotto, ogni tanto un sospiro si leva, un ordine s’impone, una direzione di marcia s’indica: “A Roma! A Roma! A Roma!”. Ogni capotribù o capopartito o caporivolta, simile al Brancaleone da Norcia (simile per modo di dire: di gran lunga più simpatico, di solito, Brancaleone risulta), mentre poggia il piedino nell’immaginario suo Rubicone che a Roma conduce, si fa: “Quando vi dico sequitemi miei pugnaci, dovete sequire et pugnare! Poche conte! Se no qui stemo a prenderci per le natiche!”. In attesa che quelli dell’Isis si sbroglino dall’ingorgo della Salerno-Reggio Calabria, per finire dentro quello “de ’sta cazzo de Pontina” – come da previsioni stradali sul web – son giunti intanto i cosiddetti fascioleghisti, rurali trattori col concorso di maschie e quadrate legioni in calata dal Pincio, tutti lì a piazza del Popolo, là dove il genio di Ennio Flaiano s’appisolava e prendeva il volo: “Chi rifiuta il sogno deve masturbarsi con la realtà”. Sega libera tutti! Ma son solo gli ultimi, codesti – i tunicati e gli infelpati – che alla conquista di Roma vanno. Appena una settimana prima, su Roma s’erano avventati i tifosi olandesi – piscianti di birra, il ventre dilatato, rutto e fiato da sorcio morto in bocca, bianchi di carni molli e insignificante crine nordico – a saccheggio della fontana della Barcaccia.

 

Non c’è chi non voglia Roma. Di cupole e di marmi e allo svacco tesa, di terrazze e televisionari e miserabili, che in certi giorni (“verso le cinque attacco il whisky”) il grandissimo Vittorio Gassman vedeva popolarsi di tigri del Bengala, “come quelle di cui Borges popola la sua allucinata Buenos Aires” – e in certi versi ne descriveva la sua angosciante bellezza: “Non si è alla lunga immuni: / in attesa che giunga il mattino / ti invecchia il ponentino a vista d’occhio / nelle notti illune alle quali il barocco / circostante offre guizzi / di ignobile maestà”. Con barocco e barocchetto, trucco e parrucco, la testa ti fa girare, e lo stomaco ti brucia, Roma. Uomini santi e uomini di fuoco infernale dotati, statisti e cialtroni, bande teppistiche e pellegrini che precipitano nel fiume, capomanipolo e capobanda, bersaglieri che fanno breccia e hitleriani che fanno retate de poveracci – ognuno a voler redimere, pure a costo di decimazione: ché si sa, redenzione per il paese, senza passare per quella della baldraccosa Babilonia accasciata sul Lungotevere, non c’è. Le meglio intenzioni della politica, i meglio politici persino, sempre sostano – vuoi ora urlanti, vuoi ora imploranti – a ridosso delle Mura Aureliane. Non c’è modo di prendere il potere senza provare a prendere Roma – che però, simile alla Russia zarista e gelata che iberna le armate napoleoniche, come quella sovietica e sempre gelata farà con le armate naziste, si lascia invadere e poi sputa via, apre il palazzo e sprofonda in cantina, offre la tartina e scortica nelle chiacchiere sotto il gazebo sull’attico. Tutti vengono – come il Jo Condor devastatore (e infine devastato) nei caroselli del “gigante buono”. A volte, solo un’alzata di spalle e una pernacchia ad accoglierli – “Aò, e chi ssò? ’Sti cazzi!”, a volte con quella sapienza di chi meno ardore avrà, ma più storia può vantare: “Ma veda, caro, quando voi stavate ancora a dipingervi sugli alberi, noi eravamo già froci” (così rispose, dicono, un aristocratico romano al diplomatico americano – quelli sono sempre saputelli assai – sulla rilassatezza dei costumi cittadini). Ma sempre ci si cala, sempre ci si arrampica, sempre ci si prova. Roma è la perenne tentazione, per il barbaro (sia esso politico meneghino, sia esso bandito affamato, sia esso atteso redentore): che però raramente trova il dolente Kavafis alle porte (“e ora, che ne sarà di noi senza Barbari? / Loro erano una soluzione”), quanto piuttosto la sorte che tocca al marziano flaianesco (“un suono lungo, straziante, plebeo”: leggesi pernacchia), o il grado di attenzione che il Belli riservava al Padreterno (“eppoi, bbeato lui, sta ttant’in cima / che nnun j’ariva a un pelo de cojjone”). 

 

In marcia, comunque. A stare al secolo appena andato, ecco i marcianti sopra tutti arditi, i fasci in orbace che nel ’22 avanti si fanno – con appropriata, mesta canzonistica: “Fiore del mondo la Romanità / eia eia alalà! / Mussolini un’alma splende / sotto un arco di fugor / Roma il Duce ti protende / riconoscere i tuoi valor! / Vien da millenni da Romanità / eia eia alalà / Vien dai millenni la Romanità / eia eia alalà!”. E seppure il capo, Cav. Mussolini Benito, sbarcò di suo a Termini da più appropriato wagon lits, lasciando ai marcianti suoi, su cosce di travertino da erigendo Foro Mussolini, l’onore e l’onere della pigliata cittadina, fu cosa, lo stesso, storica e purtroppo memorabile. Fu pure l’altro meneghino Cav. televisivo (di ben più mite sollazzo, di più contenuto ardimento, di certo più rassicuranti facce: quello arrivò con Farinacci, questi con il prof. Martino Antonio), che alla (democratica) conquista di Roma s’industriò – e cortei e Palafiere e certe stangone con stacco coscia a bordo palco mai viste prima, Palazzo Grazioli che giusto giusto faceva angolo col Palazzo Venezia dell’altro, dal funesto balconcino: e se sul balcone di quello – a vista del benemerito bar dove il vecchio poeta Trilussa corteggiava la giovane cassiera (“Voi che avete fatto oggi?”. “Sono stata al mare”. “E il mare che ha detto, quando ha visto questi occhi?”: in pochi metri, Roma ti mette insieme il peggio e il meglio) – cor pennacchio e la panza stretta s’affacciava a scandire la sfigatissima ora segnata dal destino nel cielo della patria, sul balcone di quell’altro, appena girato l’angolo, al più s’affacciavano Capezzone e Verdini e il musetto vispo di Dudù. E da Milano, ancor prima, a Craxi la conquista politica di Roma toccò – e fu gloria, si capisce, giustificatissima gloria, e infine il quieto deperibile accasarsi di e con “nani e ballerine”, fino al brutale, osceno lancio di monetine – ché sempre Roma coi suoi conquistatori (quelli buoni e democratici, quelli carogna e fetenti: lo stesso) fa così, piglia e poi butta, innalza e rovescia, esalta e insulta, s’accuccia (“li potienti stavano alla guattata”, nella “Cronica” dell’Anonimo romano che racconta, a proposito di conquistatori politici, la fine di Cola di Rienzo) e improvvisamente zompa fuori. E di tanti che quaggiù calarono, di tutti quelli che da laggiù vogliono salire, ora al Matteo fiorentino, già prima e meglio di quello padano, senza manco l’apporto trattoristico e dei marcianti dal Pincio, la città si è consegnata (e lui, per stare alle cronache ultime, meglio farebbe a non sorvolarla da lassù con l’elicottero: che seppur a ragione lodato, non è il Cristo felliniano de “La dolce vita”, che dorato e a braccia tese sotto le eliche e sopra la città pendola e dondola). Ricordarsi sempre: “Alla guattata” Roma sta.

 

Ché Roma si consegna, non combatte. Tutto si piglia, e di tutto si stufa. Appunto: “Aò, ’sti cazzi!”. Quanti, dalle meglio intenzioni animate – ora con doni e sorrisi, ora con sbraco de burini – la cinsero e credettero (o giurarono) di annientarla o di sedurla… Quando poi la Prima Repubblica crollò, fu un andirivieni da far girar la testa – tutti a proclamare castità politica, tutti a puntare l’indice sulla corruttiva capitale. “Roma ladrona!”, tuonò la Lega, con bossiana eruzione, quando Salvini era ancora bimbino. Se ne trova vibrante cronaca, sul Corriere della Sera dell’ottobre del ’92. Hotel Nova Domus, zona Trionfale. Ecco Bossi, che lancia il suo grido di battaglia: “Alla conquista di Roma”. Si precisa, in “tre anni”. Perché tre? “Perché è un bel numero”. Mah. E su Repubblica, lungo articolo sul conturbante interrogativo di Ferdinando Adornato: “Se un giorno Bossi conquista Roma”. Poi i leghisti arrivarono – dapprima attruppati tutti intorno al capo e allo spadone di Albertone da Giussano, poi cominciarono a sparpagliarsi. E Roma – con stomaco che tracanna pajata, figuriamoci padani – cominciò a farli volare qua e là, tra ristoranti e studi televisivi, come la neve artificiale di Ferragosto che si spande per l’apposita Madonna. E quando calarono i dipietristi, fu lo stesso festa grande, nonostante il tintinnar di manette. Per non dire dei cinquestellati (pure loro: “La campagna elettorale per la conquista di Roma è ufficialmente iniziata”), tutta una covata di “bravi ragazzi” a denominazione grillina controllata, in transumanza su pullman verso più occultati agriturismi, tre torpedoni tre, deambulanti oltre il perimetro peccaminoso della città, con tanto di cittadino eletto dimenticato all’autogrill, e cartello posto a un improvvido incrocio: “Dove cazzo vai”, messo dal proprietario del posto, ché tutti si sbagliano e la strada di casa sua imboccano. E il meraviglioso “dove cazzo vai” è perfetta evoluzione del notissimo “Quo vadis?” (più o meno, la stessa cosa significa) azzardato da San Pietro, con cui Cristo lo rimise sulla strada di Roma (e della crocifissione: per dire che, a Roma arrivati, a Roma pure si crepa). Siccome è città annoiata, che tutto ha visto, papi e imperatori e gladiatori, duci e salvatori, persino monache erotiche e spesso attori cani – tale e quale la filosofia della felliniana trattoria dell’apposito capolavoro: “Come magni, cachi!”. “Sì, ma come cachi male!” – c’è avidità di nuovo, e proprio per aver tanto visto, rapido annoiamento e successiva rimozione. Insomma: venite pure a salvarci, se proprio vi preme, che magari ci divertiamo un po’, ma non rompete troppo i coglioni… Persino i “forconi”, che volevano conquistare la città, pure quelli da piazza del Popolo, furono attesi con spasmi e sbadigli – aò, se vedono ’sti forconi, ’ndo stanno? Sul Raccordo, dicevano… Beh, s’è fatta ’na certa, se beccamo domani… Sublime, quasi una tacca sopra il “siamo dèi” del principe di Salina.

 

[**Video_box_2**]Mi vuoi conquistare? E vieni! Mi vuoi salvare? E provaci! Mi vuoi migliorare? E vedi cosa puoi fare! Roma è impossibile da conquistare, perché praticamente da conquistare non c’è nulla. Sta già tutta là – er padano o er renziano, er sor Isis e la sora Lella, er Berlusca e Bettino, i bersaglieri che con du’ cannonatelle s’aprono er buco a Porta Pia e sortono (“Nulla resiste al bersagliere!”, si lodarono su marmo, su apposito monumento, i suddetti; “Tranne Rosetta!”, aggiunse con un pennarello un bersagliere magari stremato dall’attesa e dalla voglia) e la conquista fu compiuta, nonostante l’inno alla resistenza di monsignor Governatore: “Santo Padre nun tremate / si sentite le scoppiettate / semo pochi, ma fedeli, / e cce brùcieno li peli” (e il Santo Padre, c’è da credere, piuttosto tremò di spavento più per il poetare dei suoi che per le altrui cannonate). Seguì travaso di piemontesi e vermuth e travet. A Roma vanno sostanzialmente bene quelli che poco rompono e poco credono di ammaestrare – per il Belli, che a un pelo di coglione non arrivano. Filosoficamente, sempre si ammonisce: “A more’, a mezzo metro dar culo mio poi fa’ quello che te pare!”. A mezzo metro almeno, però. Per questo perfettamente aggregati alla città stanno miti mignotte e saggi preti, gatti e democristiani, i comunisti dell’Estate romana che ti apparecchiano merengue e porchetta e la squadra calcistica che di gloria magari poco si copre ma d’infamia non si lagna, i cinematografari col meraviglioso universo di cartapesta che si tirano dietro e i fagottari in spiaggia, fagottari pure quando poi stanno in piazza – tutta gente del saper vivere e far vivere, dello scassare il meno possibile. Fatta la tara di questo, poi Roma piglia di tutto: persino il sindaco (destra) di Bari ha avuto, persino quello di Genova (sinistra) ha adesso. Non c’è velleità di conquista cui Roma non risponda: prego, si accomodi! Tanto, ’ndo vai? Giusto i nordici sbroccati e selvaggi non funzionano. Pure quando vennero con l’esercito di Carlo V, luterani che ardevano di riforma e fecero ardere la città, lanzichenecchi che manco la scusa della partita avevano – lì davvero conquistata, lì davvero saccheggiata, “tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de’ santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de’ loro ornamenti, erano gittate per terra; aggiungendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi” (Francesco Gucciardini) – contro la buona grazia della vendita delle indulgenze, che almeno per qualche Michelangelo e qualche Raffaello, oltre che per la meraviglia del Cupolone, servivano.

 

Perciò: veni, vidi, e a casa tua torni. Dal marziano di Flaiano al leghista di Salvini (senza dimenticare Obelix sul Raccordo anulare), berlusconiani e grillini, dipietristi e tsipratisti, forconisti e craxisti e quelli del Gay Pride, pure juventini e fiorentini – der giglio magico o della mentuccia selvatica, renzisti sempre. Tanto, la conquista di Roma è solo slogan vuoto. Tutta intenzione, niente sostanza. Per dire, il giorno prima si titolava: “007 alla conquista di Roma”, il giorno appresso si rettificava: “James Bond fermato dalle buche di Roma: Daniel Craig si fa male e non partecipa alla ripresa”. Mejo della Spectre, semo. Del resto, basta cercare su Google “conquista di Roma”, per avere, insieme ad Alarico e Genserico, le più svariate indicazioni: “Justin Bieber alla conquista di Roma”, “Il peperoncino di Tarquinia alla conquista di Roma”, “I vini Falanghina del Sannio alla conquista di Roma”, “Champions, il Barça alla conquista di Roma”, “I monarchici alla conquista di Roma” (però, avanti Savoia!), pure “I mormoni alla conquista di Roma”, “Alla conquista di Roma con i bastoncini nordic-walking”, “Mafia capitale alla conquista di Roma”, “Il pedale alla conquista di Roma”, “Chiellini, l’uomo mascherato, alla conquista di Roma”, ecc. ecc. Restano fuori quali conquistatori falliti, con giustificato disappunto, giusto il cane Snoopy, “Mariarosa Mariarosa ogni cosa sai far tu” e il delfino Flipper. Perciò, se ce l’hanno fatta i bastoncini nordic-walking, figurarsi tutti gli altri ardimentosi. Basta che poi, quando se ne vanno, lasciano tutto in (dis)ordine come hanno trovato. “Ci toccherà preparare barili d’acqua santa”, scriveva Pio IX, dopo la conquista da parte dei bersaglieri, a futura riconsacrazione. Non ebbe mai modo di usarli. Ma lo stesso, difficoltà di conquista a parte, pure per Roma qualche barile d’acqua santa di riserva è sempre ottima cosa.