Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella (foto LaPresse)

Oltre la noia c'è di più

Claudio Cerasa

Mattarella, la politica, il terrorismo e il significato di un concetto chiave: Israele siamo noi.

A voler essere molto pigri e superficiali si potrebbe commentare il discorso di insediamento del nuovo presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, soffermandosi solo sulla forma, una certa noia, il ritmo che non va, i tempi morti, le pause un po’ così, i fogli che si perdono via e l’impressione che al nuovo capo dello stato servano con urgenza un buon ghost writer e un corso di dizione.

 

Il tempo c’è, non bisogna avere fretta, così per ora ci accontentiamo di 15 mila battute costruite come se fossero migliaia di brevissimi tweet (Sergio Soave spiega con mille didascalie il non detto che si nasconde dietro ogni frase del nuovo capo dello stato). Ci accontentiamo perché dietro la forma, a saper leggere con attenzione, vi è anche una sostanza importante che merita di essere presa sul serio e che ci fa sospettare che il nuovo presidente avrà pure qualche difetto di forma, ok, ma, quanto ai contenuti, è dalla parte giusta delle cose, della storia. Dal punto di vista politico bene, benissimo, il tentativo immediato di ricucire la ferita (a noi sembra perfettamente rimarginabile) che si è aperta in questi giorni tra il capo del governo (Renzi) e il capo del secondo partito più importante del Parlamento (Berlusconi). Bene, benissimo, il fatto di aver inscritto subito nel Dna del proprio settennato un principio importante e non scontato che riguarda la necessità di riformare la Costituzione (evidentemente neppure per lui è la più bella del mondo) per rafforzare il processo democratico (a Roberto Benigni va la nostra più completa e sincera solidarietà). Ma il punto politicamente più importante del ragionamento di Mattarella – oltre al fatto di aver promesso, e ci mancherebbe, di voler essere arbitro non particolarmente devoto all’interventismo – riguarda il peso notevole dato a un tema che aveva già sfiorato sabato scorso durante la sua prima uscita pubblica, visitando le Fosse Ardeatine. Il punto è questo e il presidente lo ha detto piuttosto bene. Prendete fiato, citiamo solo un passaggio: “Il terrorismo internazionale ha lanciato la sua sfida sanguinosa, seminando lutti e tragedie in ogni parte del mondo e facendo vittime innocenti; la lotta al terrorismo va condotta con fermezza, intelligenza, capacità di discernimento. Una lotta impegnativa che non può prescindere dalla sicurezza: lo stato deve assicurare il diritto dei cittadini a una vita serena e libera dalla paura; la comunità internazionale deve mettere in campo tutte le sue risorse; il nostro paese ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell’odio e dell’intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell’ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano”.

 

[**Video_box_2**]Notevole almeno per due ragioni. La prima è che il presidente ha, come si dice, messo le cose in chiaro, ha voluto definire bene la cornice in cui si trova l’Italia (l’esperienza da ministro della Difesa deve essere stata utile, e il suo atlantismo del resto non è di oggi), il suo necessario impegno nella lotta contro il terrore, e ha voluto dire che va bene che l’Italia ripudia la guerra (applausi di Sel) ma il problema è che (svenimenti di Sel) la guerra non ripudia noi, ci sta arrivando addosso e bisogna agire, se serve prevenire anche attaccare (il giorno in cui il presidente dirà che, per rispondere al terrore, serve “una violenza politica, militare, tecnologica e civile incomparabilmente superiore”, ci coloriamo tutti i capelli di grigio). Il passaggio è importante se collegato a quanto detto sabato scorso, quando il presidente, unico caso di leader in Europa a nostra memoria ad aver utilizzato parole di questo tipo, ha paragonato il terrorismo islamico al nazi-fascismo. Ma il passaggio è particolarmente importante perché dovendo fare un esempio concreto, visibile, forte, evocativo, di cosa significhi essere vittime del terrore, il presidente non ha parlato del terrorismo italiano, non ha pescato nel drammatico ma politicamente meno spigoloso archivio delle Br, non ha parlato di Aldo Moro, ma ha raccontato il caso di Stefano Taché, un bambino di due anni rimasto ucciso nel 1982 in un attacco terroristico alla Sinagoga di Roma. Quel bambino ebreo, è come se avesse voluto dire Mattarella, è il nostro bambino, siamo noi, è l’Italia di oggi, è l’Europa di Charlie Hebdo, dei supermercati kosher parigini. E’ l’Europa del futuro, che deve muoversi senza pensare di poter combattere questi fenomeni “rinchiudendosi nel fortino degli stati nazionali”. Perché se quel bambino ebreo morto siamo noi, è il ragionamento successivo, noi non solo siamo fortemente atlantisti ma siamo un po’ come Israele, dobbiamo imparare a vivere sapendo che il terrore esiste, che non è un cartone animato, e che il terrore bisogna prevenirlo e anche affrontarlo. E’ vero. Mattarella ha detto anche che non esiste uno scontro di civiltà o di religioni – ma capiamo che certe cose un capo dello stato non può dirle, e negli anni terribili nemmeno George W. Bush arrivò a dire tanto. Ma al di là della forma la sostanza c’è. E, ghost writer a parte, il presidente ci pare sia dal lato giusto della storia. Mazel tov.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.