Socrate e Alcibiade in casa di Aspasia. Dipinto di Jean-Léon Gérôme (1861)

La democrazia è sopravvalutata

Alessandro Giuli

La democrazia è sopravvalutata. Lo dice il modello democratico up do date, Frank Underwood di “House of cards”. Lo dimostrano sopra tutto gli ultimi settant’anni buoni (o cattivi) di storia. Però tranquilli, oggi non c’è bisogno di conoscere la storia più o meno antica per traguardare la verità.

La democrazia è sopravvalutata. Lo dice il modello democratico up do date, Frank Underwood di “House of cards”. Lo dimostrano sopra tutto gli ultimi settant’anni buoni (o cattivi) di storia. Però tranquilli, oggi non c’è bisogno di conoscere la storia più o meno antica per traguardare la verità, non serve accompagnarsi a Pericle e Rousseau o a Bobbio per capire che la democrazia dilegua lì dove finiscono i confini della città, se non addirittura di un condominio. Per quel che riguarda l’Italia, oggi, è sufficiente riepilogare all’ingrosso, e in modo avalutativo, i risultati politici delle ultime due legislature. Alla fine del 2011, a ripescarci dal vortice di un fallimento pubblico è stato un governo di tecnocrati semi imposto da Giorgio Napolitano – questo giornale, dopo avere invocato le elezioni sotto la neve, lo avrebbe poi celebrato come una salvifica “dittatura commissaria” – guidato dal professore bocconiano Mario Monti e benedetto dalle élite occidentali. Le successive elezioni hanno ribadito l’incosistenza di un ceto politico che si è visto costretto a una grande coalizione del grigiore (Enrico Letta) presto spodestata da Matteo Renzi e dal suo decisionismo monocratico. Azzoppata la democrazia rappresentativa, ridicolizzata dal dottor Gribbels la democrazia diretta nella sua versione apocalittico-internettiana, l’Italia si è opportunamente affidata alla democrazia municipale renziana, tendenza Machiavelli (senza offesa per Machiavelli), ma sempre entro i limiti di una sovranità ammezzata dai così detti vincoli esterni. Gli stessi vincoli – Unione europea, Banche centrali, Fondo monetario internazionale ecc. – che in queste ore sculacciano con volto carezzevole l’idealista greco Alexis Tsipras e la sua rinnovata illusione da Alcibiade digitale.

 

La vecchia democrazia non si porta più come una volta e anche i seguaci di Churchill se ne sono fatti una ragione: se l’obiettivo è la governabilità, l’efficienza, la sveltezza, bisogna confidare nello smart-government post democratico: governissimi accentratori issati su partiti leggeri come tavole che fanno il surf su procedure snelle snelle e abbandonano sui fondali immoti le polverose liturgie parlamentaristiche. Il tutto, ovvio, nello stagno ventilato e recintato dagli organismi internazionali che ci sorvegliano. E il principio una testa un voto? Quello varrà sempre come l’esergo di un’opera sofisticata, in senso letterale. Altrimenti?

 

[**Video_box_2**]Un’alternativa è aprirsi a certe forme di totalitarismo barbarico che premono alle porte del tardo impero. Come l’Isis, per esempio. Meglio di no. Ma anche qui cova un equivoco: chi dall’occidente voleva esportare la democrazia, a forza di abbattere satrapie e fuggirsene, ha finito per importare lo Stato islamico. Insomma i conti non tornano. Eppure s’odono lamenti per la disaffezione degli elettori, ma nelle democrazie mature funziona così, salvo poi scoprire, out of the blue, che sono democrazie talmente mature da irrancidire per fare posto ad altro. Questo altro i pitagorici lo riassumevano in un solo verso: “Presso il potere vige Necessità”. La democrazia è ancora così necessaria?

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