Corazzieri a cavallo: anche loro oggi saluteranno (se sarà eletto) il successore di Giorgio Napolitano al Quirinale

Quirinal memories

Stefano Di Michele

“I mezzi tecnici sono tre: il pugnale, il veleno, i franchi tiratori”. La sublime maestria dei leader dc per impallinarsi a vicenda lungo la difficile strada che porta al Colle. Tre volte candidato, toccò a Fanfani, che guidava la seduta, leggere in pubblico “Nano maledetto / non sarai mai eletto”.

Cristo e sant’Antonio formano oggettivamente una bella coppia – capace di far impallidire pure quella del patto del Nazareno. Oggi salutiamo il successore di Napolitano. Don!- Don!-Don! E’ la campana di Montecitorio, che nel bronzo le due celestiali figure porta incise, insieme al motto “Onorate la giustizia voi che giudicate in terra” (essendo in origine, il Palazzo più Palazzo di tutti, adibito a udienze di tribunali papalini), e che all’Urbe e all’Orbe il lieto annuncio darà. Don!-Don!-Don! Festevole scampanellìo per alcuni (per uno di sicuro), cupo rimbombo per altri (per molti di certo) – ché è, si sa, la strada per il Colle, il “miglio verde” che politicamente parlando molte solide carriere conduce a esecuzione, la “Spoon River” barocca di tante (in)giustificate vanità. Così, se il cielo esulta, ben più pratica e preventiva saggezza indicava agli aspiranti presidenti sconfitti l’aureo volumetto della “legge di Murphy” (sezione “legge delle autostrade”) di Arthur Bloch: “Se tutti ti vengono incontro, sei nella carreggiata sbagliata”. Perché, storia italiana com’è, quella delle elezioni quirinalizie è anche storia molto pop, qua e là con inserimenti da cine splatter, epica sanremese, “grazie-dei-voti-tratutti-gli-altri-li-ho-riconosciuti”, con annotazioni da verbale questurino a seguito del solito rinvenimento di cadaveri politici. E appunto: “Mi sono fatto giocare come un bambino a mosca cieca”, ebbe a lamentarsi già nel lontanissimo 1955 l’autorevolissimo Cesare Merzagora, che verso il Colle pensava di inerpicarsi con rapida scalata e nel baratro politico fu invece precipitato. Può elevare, la sagra quirinalizia, un fossile superstite di altre lontanissime ere geologiche e politiche a vertiginose altezze, al ruolo da maschio alfa, oppure lo stesso consegnare definitivamente allo studio e al microscopio del paleontologo. I voti, ecco, i maledetti voti che non arrivano, quelli benedetti che non bastano mai – ché poi un sorriso e una promessa e una parola gentile possono molto, ma se alla parola gentile, secondo il teorema di Al Capone, si aggiunge pure la suggestione di una pistola, e di qualche franco tiratore, magari non si sbaglia.

 

E’ storia nota: a metà degli anni Sessanta, Aldo Moro, capo del governo, era intenzionato a fermare la candidatura di Giovanni Leone (ci riuscì, e Leone fu eletto solo sette anni dopo). Chiamò nel suo ufficio Carlo Donat-Cattin, capo della corrente democristiana (inarrivabili maestri, i democristiani, sublime scuola, impareggiabile accademia) di Forze Nuove. “Leone non deve passare”, disse Moro. Disse Donat-Cattin: “Ma come facciamo?”. Moro fu cauto – come si conveniva, e fu chiaro – come era convenienza: “Per quanto mi riguarda io faccio il presidente del Consiglio. Quanto a voi, esistono dei mezzi tecnici”. Fine dell’incontro. Per le scale di Palazzo Chigi, quelli che accompagnavano il capocorrente mostravano di aver inteso la cautela ma non la chiarezza: “Ma di quali mezzi tecnici parlava?”. E Donat-Cattin (che mica nella Dc si diventava capi per unzione) spiegò: “I mezzi tecnici sono tre: il pugnale, il veleno e i franchi tiratori”. Ed ecco Leone, pochi giorni dopo: “Io avevo accettato con la più stupida ingenuità. E per me le votazioni furono un vero e proprio supplizio cinese. Era come se un burattinaio invisibile organizzasse la ballata delle schede bianche per disorientare il Parlamento” – e all’avvocatura, per il momento, si riconsegnò.

 

I voti – ché c’è, oltre la speranza che siano molti, il tentativo di riconoscerli, di sommarli, di accreditarli con sicurezza, al di là dell’assicurazione verbale di quelli che “stai tranquillo, contaci, garantito”. Mai come per il Quirinale, dentro il buio di quel catafalco al centro dell’Aula, simile a misteriosa pietra sacrificale avvolta nell’ombra che favorisce l’ignoto sgozzamento, a volte non c’è né Cristo né sant’Antonio che tengano. E ogni strategia si pone all’opera, ogni sistema tra il matematico e il cialtronesco si studia – ma pur lo stesso, nei decenni, è restato l’Enigma quirinalizio più impenetrabile della macchina raccattata dagli U-Boot nazisti. Una luminosa stella cometa che sempre reca, nella coda, il disincanto e lo sberleffo. Così che a Fanfani stesso – tre volte verso la scalata si avventò con baldanza, e tre volte fu dai suoi fratelli-coltelli democristiani sanguinosamente respinto – toccò leggere in pubblico, visto che la seduta era da lui guidata, la scheda che invece del suo nome recava una sorta di burlesco epitaffio passato a ragione tra i capolavori trash della Prima Repubblica: “Nano maledetto / non sarai mai eletto”. Dunque, non del tutto a torto, l’altro giorno, quelli di Forza Italia e quelli pentastellati (che galleggiano come maoisti nel Fiume Giallo della rete, ma temono a ragione l’angiporto di quell’urna velata) avevano chiesto alla Boldrini, al momento della lettura delle schede, di limitarsi a scandire solo il nome del votato – e nient’altro. Perché è proprio quell’altro, quel niente, che spesso ha finito col fare la storia, l’irrilevante che si è rivelato come essenziale. O magari risultare la martellata ultima sulla carriera non solo di pallidi momentanei tenutari, ma pure di veri e propri leader, di vigorosi capi, di scalpitanti cavalli di razza (sempre, s’intende, d’ippodrono e a opera di maniscalchi scudocrociati), e perciò s’udì sbraitare, in simile occasione, il repubblicano La Malfa: “Romperò i garretti ai cavalli di razza della Dc!”, che ogni volta le stalle quirinalizie mettevano a disordine. Operazione che, in verità, riusciva spesso meglio a chi in Transatlantico mai avrebbe messo piede. “Ma Fanfani a quel posto metterebbe giudizio?”, si domandò Paolo VI – perché si sapeva, a quel posto l’aretino dai geni sbrigatamente renziani ambiva. Che prese molto male l’autorevolissima intromissione. E al primo monsignore che si trovò a tiro lo significò: “Riferisca a chi la manda che se lui continua a pretendere di insegnare a me come mi debbo regolare, io verrò a prendere la parola in Concilio per insegnare come si deve dire messa”. Si sorvegliano spesso (il meglio di non fidarsi, rispetto al bene di farlo) tra di loro, i Grandi Elettori – in realtà gran parte semplici sorvegliati, più che sorveglianti. “Sorveglianza stretta”, fu definita. Da nodo scorsoio. “Tu lo so che non mi hai votato!”, disse Pertini, pur se trionfalmente eletto, a Oscar Luigi Scalfaro, democristiano renitente. “Ma presidente, come fai a dirlo? Non eri mica nell’urna?”. “Lascia stare, lo so. Ti stimo lo stesso”. Ha raccontato Sebastiano Messina su Repubblica di cosa accadde a Fanfani nel 1971, preso infine nella sua stessa trappola: “Si disse – ma per la verità nessuno riuscì mai a provarlo – che per rendere riconoscibili i voti dei probabili franchi tiratori a qualcuno venne chiesto di scrivere ‘Fanfani’ in rosso, ad altri in verde, ad altri ancora con la stilografica o con la matita, metodo che era stato perfezionato di votazione in votazione aggiungendo per scaglioni il nome di battesimo, i titoli di ‘professore’, ‘senatore’, ‘presidente’ o premettendo il cognome al nome, insomma tutte le varianti possibili della preferenza fanfaniana”, tanto che l’allora senatore Lino Jannuzzi se ne andava sghignazzando per il Transatlantico: “Per eleggere Fanfani ci vorrebbero le schede trasparenti, come in Cecoslovacchia”. E così nel 1992 – prima che tutto crollasse – quando gli “Arnaldo Forlani” e i “Forlani” e gli “on. Arnaldo Forlani” e gli “on. Forlani” e i “Forlani Arnaldo” e i “Forlani on. Arnaldo”, e ogni altra combinazione immaginaria, in questo fantastico kamasutra intorno al nome del pacato e indolente capo doroteo risultò vana: e sempre un pugno di voti (trentasei là, trentanove qui) mutò la sorte. Poi, ogni velenoso dono nell’urna viene reso – così che al candidato seguente, il socialista Vassalli, altre schede franarono sotto i piedi, e i suoi l’amaro boccone ingoiarono, dopo che amarissimo boccone avevano fatto ingoiare, fingendosi spiritosi: “Siamo particolarmente grati alla Dc per aver sostenuto con esemplare lealtà…”. Quasi sempre, quando le nebbie politiche avvolgono ancora il profilo del Quirinale, si danza a Montecitorio sulle note della “ballata delle schede bianche” da Leone indicata – così quasi da farsi evocativa, col corpo del candidato rimasto appeso alle baionette dei suoi finti sostenitori, della “Ballata degl’impiccati” di Villon: “Fratelli umani che vivete ancora, / non siate contro di noi duri di cuore / ché, se pietà di nostra sorte avrete…”. Pietà, quasi mai vi fu – per coloro che presero nel petto le fucilate dei franc-tireur, che dalle trincee della guerra franco-prussiana di un secolo e mezzo fa fornirono perfetta definizione al cecchinaggio parlamentare.

 

Perfetta opera pop, il vero candidato si sottrae, sfugge i riflettori, mostra disdegno, si fa di Cincinnato pubblico estimatore – non fino al punto del “non sum dignus”, visto mai che qualche scriteriato lo prendesse in parola, ma appena un filo sotto: tra il mostrarsi disinteressato e il mantenersi oggetto di desiderio. Nel film di Paolo Sorrentino, “Il Divo”, si vede benissimo questo giochino che la pubblica sottrazione chiede per meglio procedere al riservato disarcionamento del concorrente. Ci sono il (finto) Andreotti e il (finto) Forlani – i due, in quel fatidico ’92 che preparava il tumultuoso inabissamento della civiltà minoica dell’èra democristiana, entrambi a buona ragione al Colle aspiravano. Forlani (attore): “Se Giulio è candidato, io non lo sono”. Andreotti (attore): “Se Arnaldo è candidato, io non lo sono”. Essere laterale, essere solo intuito, essere più percepiti che osservati, evocati più che presenti, il grigio meglio del definito colore, sospeso come in un quadro di Hammershoi: un po’ tipo i fantasmi di miss Giddens nel “Giro di vite”. Poi, ha spiegato un dì Napolitano a Renzi, l’empatia col popolo verrà, l’empatia segue. Sergio Mattarella, da questo punto di vista, era il più perfetto dei candidati – così che, in questi giorni dove la sua ascesa si preparava, quasi neanche un video con lui si trova, quasi nemmeno un’immagine in movimento: solo foto, ritratti fissi, la toga della Consulta calata sulle spalle che pare richiamarlo da un luogo altro (e alto) rispetto ai patimenti e alle lotte quotidiane della comune, dozzinale ciurma politica – manco un libro, un dotto saggio, da mandare in giro come è accaduto ad Amato, manco mezzo talk show da riciclare. I più accorti lo sanno: una delle cose più temibili, per il candidato presidente, nella fenomenale messa in scena di codesta opera, con molto verdiano melodramma di contorno, è l’ostentata gentilezza nei suoi confronti: trattasi di rassicurazione che quasi sempre la lama precede.

 

Come a Merzagora accadde, sessant’anni fa. “Scusa – lo avvertì il giovane ma già più scafato Andreotti – io ho vent’anni meno di te, e tu mi potresti dire di farmi i fatti miei. Però lascia che ti dia un consiglio: non esporti, altrimenti non riesci. Ma Fanfani e Scelba, mi rispose Merzagora, mi hanno assicurato che ho l’appoggio di tutto il gruppo. Quando te lo dicono in troppi è meglio diffidare, replicai io. La verità è che lui invitava a pranzo tutte le settimane il capogruppo comunista Mauro Scoccimarro, e siccome quello era molto gentile lui si era illuso di avere anche l’appoggio del Pci. Confondeva la cortesia con i voti…”.

 

Ecco, appunto. E’ quello il momento di massima, umana illusione: quando le mani si porgono, i sorrisi si aprono, le pacche sulle spalle si sprecano. Si liscia il pelo (e il vello prodiano ne porta ancora i segni, e duole il cuore nel racconto di quel D’Alema che se ne va ramingo per piazza Farnese, l’antico artiglio spuntato, e al cronista solo risponde: “Non me ne occupo, è una bella serata per passeggiare…”) non al prescelto, piuttosto alla vittima sacrificale. Allora bisogna alzare la antenne, come succedeva al bambino Adam ne “La valle dell’Eden” quando quella carogna di suo padre non lo picchiava, “aveva più paura della gentilezza di quanta ne aveva avuta della violenza perché aveva la sensazione che lo stessero preparando per un sacrificio, che lo trattassero con tanta gentilezza prima della morte, come le vittime destinate alla divinità”.

 

[**Video_box_2**]Ha il dramma la sua parte, sempre, nella vicenda del Quirinale. E la commedia, essendo faccenda italiana, pure – Gasparri, per dire, certo impressionato dal fatto di sedere nella stessa Aula dove si aggirò il senatore a vita Montale, ha messo mano per questa occasione persino a un insospettabile (si spera non replicabile) estro poetico: “Tutto è pronto, addobbi e sale / per la sfida al Quirinale. / Nazareno, Mattarella, scegli questo oppure quella…”. I suggestivi candidati mediatici che sorgono qua e là, come lumachine nel dopo pioggia: l’evento Magalli, che a suo conforto i precedenti di Schwarzenegger e Reagan evoca, così il sostegno del direttore del Fatto pubblicamente incassa, la tentazione della marachella nel segreto dell’urna, così che i voti possano piovigginare su stimati cronisti, conduttori radiofonici, televenditrici, figlie di re, persino mogli di leader, calciatori in pensione, cantanti da stadio, quelli che nel segreto invece del nome depositano il biglietto ferroviario. L’altro giorno è stata così omaggiata Sabrina Ferilli, in passato Sophia Loren, la volta scorsa all’operoso Rocco Siffredi toccò l’onore – e adesso provate a dire che quello non ha i requisiti!, subito si sospirò tra l’Aula e le cronache. Per non dire d’ogni sorta d’invocazione che la votazione precede, e perciò (e quest’ultima volta più delle altre è successo), al di là, per carità, della richiesta “autorevolezza” (manco a dirlo, si potrebbe mai richiedere spregevolezza?), l’indispensabile onestà, ovvio, la “società civile” che sempre ha le sue pensate e le sue ardimentose raccolte di firme, ecco che c’è chi lo/la vuole donna, chi lo preferirebbe pure nero, chi sospira per un settentrionale (Napolitano nomen omen), e chi, va da sé, un gay dichiarato vedrebbe benissimo – il senatore piddì Lo Giudice ha fatto pure il nome, oltre la richiesta qualifica, quello del grandissimo Paolo Poli, capacissimo di sollazzare non poco con intelligenza le nostre istituzioni: “La mente è come l’ombrello: per funzionare deve essere aperta”, ma pure di scontentare i più severi tra i custodi della nostra moralità e/o legalità: “La sola legge che non ho infranto è quella di gravità”.

 

Se basterà attruppare per solo tre giorni senatori e deputati, stamattina si vedrà. Se il mite Sergio Mattarella dovrà solo attraversare la piazza, per passare dal palazzo della Consulta a quello del Quirinale, col travaso dei suoi amatissimi gatti, rebus che verrà sciolto in queste ore. In altre elezioni fino a ventitré votazioni si è giunti – agonia da Conclave papale a Viterbo, voglia di scoperchiare il tetto di Montecitorio. O ventuno. O sedici. Ma stavolta pare fatta.

 

Anzi, è fatta. Lo stesso, si racconta di gente che in passato aveva il discorso già pronto – lo notò il solito Andreotti, andando indietro nei decenni, sulla scrivania dell’ormai rassegnato conte Sforza. Meglio perciò non portarsi troppo avanti con l’entusiasmo – e benissimo sa Mattarella, dello statista e santo sicuro estimatore, cosa raccomandava Tommaso Moro, dei politici ormai stremato protettore: “E’ già un pessimo affare perdere la propria anima per il mondo intero, figuriamoci per la Cornovaglia”. Solo appena un po’ di più per il Quirinale.

 

Ma niente paura, né l’anima sua né il designato stesso corrono rischi, dicono a Montecitorio. Ci siamo, si giura. Pure Cristo e sant’Antonio lassù sono pronti – lo sono sempre. I democristiani, poi, più e meglio di tutti.

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