Alexis Tsipras (foto LaPresse)

Le fortune cinesi nel Pireo e le richieste per Tsipras

Marco Valerio Lo Prete

Lo scorso 15 ottobre il presidente del Consiglio greco, il conservatore Antonis Samaras, sferrava uno dei primi e più vigorosi attacchi pubblici al partito di opposizione di sinistra radicale, Syriza, imprimendo quell’accelerazione che poi l’avrebbe portato ad anticipare la difficilissima scelta del Presidente della Repubblica e, dopo il fallimento di quella scelta, anche le elezioni politiche.

Atene. Lo scorso 15 ottobre il presidente del Consiglio greco, il conservatore Antonis Samaras, sferrava uno dei primi e più vigorosi attacchi pubblici al partito di opposizione di sinistra radicale, Syriza, imprimendo quell’accelerazione che poi l’avrebbe portato ad anticipare la difficilissima scelta del Presidente della Repubblica e, dopo il fallimento di quella scelta, anche le elezioni politiche. “I mercati per un po’ hanno detto che la Grecia stava andando molto bene e che la loro unica preoccupazione fosse il rischio politico. Nelle ultime 24 ore, l’attitudine dell’opposizione non ha che peggiorato tale rischio. Syriza sta minando direttamente la stabilità e i mercati hanno reagito contro gli interessi del paese”, tuonò Samaras. Era il 15 ottobre, appunto. Il giorno dopo Zou Xiaoli, ambasciatore della Repubblica popolare cinese ad Atene, con inusitato tempismo, incontrava Alexis Tsipras, leader 40enne di Syriza e presunto untore dei mercati. Pechino dimostrava in questo modo che l’instabilità politica in Grecia non è questione che ossessioni soltanto le cancellerie dell’Eurozona, e che la seconda economia del pianeta è pronta a dialogare con tutti nel paese più colpito dalla crisi dell’euro, specie con chi plausibilmente potrà presto finire al governo.

 

La Grecia non è la prima mèta per importanza degli investimenti del Dragone in Europa, ma negli ultimi anni è diventata rapidamente uno snodo decisivo. Il 2015, poi, prometteva fino a qualche settimana fa di essere l’anno in cui realizzare un ulteriore salto di qualità. Per questo Pechino, da mesi ormai, sta cercando di decrittare le elezioni di domani e gli scenari politici che ne discenderanno. Perché cinesi sono per esempio i partner del gruppo greco Lamda che si è aggiudicato il progetto di trasformazione del vecchio aeroporto Hellinikon di Atene. Cinesi sono gli investitori che si candidano, in gara con altri, a gestire l’attuale aeroporto internazionale di Atene (prima di una società tedesca, ora di un gruppo canadese). Sempre cinesi sono i capitali pronti a investire 800 milioni di euro per un aeroporto nuovo di zecca a Creta. Per uno stato dalle finanze pubbliche precarie come quello greco, si tratta di insperate boccate d’ossigeno. Poi ci sono investimenti già avviati dalla fine degli anni 90 come quelli dei colossi tecnologici Zte e Huawei, anch’essi benvenuti nel paese della disoccupazione record in Europa. Quindi le quasi 4.000 attività commerciali in mano a cinesi nella capitale Atene. “E’ significativo che la Cina, allo stesso modo della Germania, si stia affermando come investitore estero nel paese, con la differenza che la prima sta ricevendo finora un’accoglienza molto più favorevole da parte dell’opinione pubblica”, dice al Foglio il giornalista George Tzogopoulos, fondatore dell’osservatorio Chinaandgreece.com. Di cosa allarmarsi, dunque? “Syriza per esempio ha minacciato di rallentare o addirittura bloccare i processi di privatizzazione avviati – dice Tzogopoulos – Inoltre alcuni dei suoi membri sono storici oppositori del più grande investimento cinese in Grecia, quello nel Porto del Pireo. Sostengono che lì sarebbe violato il diritto del lavoro greco”.

 

Proprio nel porto che Temistocle fortificò e rese indispensabile nel Quinto secolo avanti Cristo, in quella periferia di Atene che si affaccia sul mare ma che oggi è uno dei capolinea della scintillante metropolitana costruita per le Olimpiadi del 2004, si trova il fulcro degli interessi cinesi nel paese. Lì si assiste alle prove generali del tentativo di Pechino di trasformare la Grecia nella sua principale porta d’ingresso in Europa. Se questo progetto di lungo termine dovesse essere sintetizzato con un numero, quel numero sarebbe 3 milioni. Tanti sono infatti i container movimentati nel Pireo nel 2014 dalla filiale greca della multinazionale Cosco, la China ocean shipping company. Tre milioni di container vuol dire un aumento del traffico del 18,5 per cento rispetto a un anno fa per i due dock (o terminali) del porto privatizzati nel 2009, o meglio ottenuti in concessione trentennale dal gruppo di Pechino per la cifra di 490 milioni di euro. Mentre il terzo terminale, quello gestito ancora dallo stato greco tramite l’Olp (Autorità portuale del Pireo) si è fermato a 700 mila container movimentati. Il processo di privatizzazione fu avviato sotto il governo conservatore di Kostas Karamanlis, quando la crisi dei conti pubblici e di competitività era ancora nascosta sotto il tappeto. Il socialista George Papandreou si oppose, ma poi una volta giunto al governo decise che era meglio lasciar fare i cinesi. “Fino ad allora circa 120 operai specializzati nello spostamento dei container dalle navi alla terraferma e viceversa tenevano in scacco l’infrastruttura – dice al Foglio Constantine Yannidis, presidente della Hellenic Chinese Chamber, camera di commercio greco-cinese – Il loro posto di lavoro era trasmesso essenzialmente in maniera ereditaria, e anche i giorni di sciopero gli venivano pagati per contratto. In un anno arrivavano a prendere 120 mila euro, decisamente molto di più del reddito medio di un operaio greco”.

 

Yannidis parla al passato perché, con l’arrivo di Cosco, quasi tutto è cambiato. Dal 2009 le nuove assunzioni, circa 1.000 secondo il quotidiano americano Wall Street Journal, sono avvenute tutte attraverso un’agenzia terza e non controllata dai sindacati; lo stipendio mensile nei due terminal privati è di circa 1.200 euro, ancora sopra la media greca ma meno di un terzo rispetto a prima; di scioperi selvaggi, come quelli che spesso costringevano le navi porta-container a essere dirottate nei porti ciprioti e italiani, non se n’è più sentito parlare. “Né va sottovalutato il positivo effetto-emulazione sul dock ancora in mano al settore pubblico”, osserva Yannidis, imprenditore chimico laureato in Italia. Non soltanto gli scioperi sono diminuiti anche nella parte del Pireo controllata dall’Olp, ma i container movimentati in tutto il porto sono passati complessivamente da 433 mila nel 2008 a 3,7 milioni nel 2014. Non a caso il governo di Samaras si era convinto pochi mesi fa a concedere il permesso di ampliare la presenza cinese nel porto, aprendo pure alla possibilità che i cinesi rilevassero un cantiere navale vicino Atene.  “Stabilità delle regole fiscali e burocratiche, oltre al mantenimento dell’euro come moneta del paese. Questo sta a cuore agli investitori di lungo termine come quelli cinesi. E questo occorre anche ai nostri imprenditori – conclude Yannidis – Il prossimo governo quali garanzie offre su tutti questi fronti?”. Per cercare risposte quanto più precise possibili, Pechino ha già avviato i contatti con il rampante Tsipras.

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