I sauditi, il greggio flop e l'eco dell'antica sfida nel Caspio

Alberto Brambilla

Le monarchie petrolifere del Golfo si sono imbarcate in una guerra dei prezzi tesa a indebolire i concorrenti americani, i produttori di shale oil, ovvero degli imprenditori privati accusati di distorcere il mercato.

Roma. Le monarchie petrolifere del Golfo si sono imbarcate in una guerra dei prezzi tesa a indebolire i concorrenti americani, i produttori di shale oil, ovvero degli imprenditori privati accusati di distorcere il mercato. I petro-stati chiave dell’Opec, lo sgualcito cartello dei produttori, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno un obiettivo non distante dall’idea di frantumare centinaia di aziende americane come queste frantumano le rocce di scisto da cui estraggono petrolio e gas. Negli ultimi quattro anni negli Stati Uniti sono stati avviati 20 mila nuovi pozzi, oltre dieci volte quelli sauditi attualmente attivi, dice l’Economist. Ieri, mentre il prezzo del greggio del mare del Nord toccava i 47 dollari al barile, poi calato a 45, i minimi da sei anni, il ministro dell’Energia degli Emirati, Suhail bin Mohammed al Mazroui, ha detto chiaro che la strategia di alcuni membri Opec mira a “correggere” la sovrapproduzione di petrolio causata dall’olio di scisto, perciò il modus operandi non cambierà finché tale distorsione non sarà depotenziata. L’intento dell’Arabia Saudita sarebbe quello di attenuare e non di uccidere (“chill, not kill”) la rivoluzione energetica made in Usa, secondo un ascoltato analista come Ian Bremmer, presidente del centro di analisi americano Eurasia Group. Soprattutto se nel frattempo a soffrirne saranno i nemici dei Saud, ovvero Russia e Iran. Tuttavia gli imprenditori americani tremano. Le banche potrebbero ritrattare la fiducia concordata, gli obbligazionisti potrebbero non sottoscrivere più i bond energetici, ormai a livello “spazzatura”, e i default a catena paiono ormai una certezza.

 

Le imprese che hanno beneficiato del boom energetico sono rappresentate da novelli avventurieri del business, imprese famigliari, oppure navigati magnati del settore. Harold Hamm, capo della Continental Resources, balzato alle cronache per il “divorzio da un miliardo di dollari” (la moglie ha rifiutato l’assegno, forse imprudentemente) ha visto la sua ricchezza assottigliarsi di 11 miliardi da giugno a dicembre. Per Stephen Chazen della Occidental Petroleum non è sano restare in attività se un barile vale meno di 70 dollari. A loro si aggiungono una sfilza di società del Texas, del North Dakota, dell’Oklahoma. Tuttavia hanno dalla loro una flessibilità unica per modalità di produzione – un giacimento può essere avviato in pochi mesi –, di finanziamenti – i fondi di ventura –, oltre al piglio americano del fallimento come chance di rinascita e non come plateale sconfitta. Molti, vedi Hamm, invocano una reazione da parte di Washington. Le cannonate non arriveranno: il greggio a prezzi bassi rafforza il pil che dalle rendite petrolifere trae modesto beneficio (sebbene la produzione aumenterà ancora, dice il governo). La risposta ai petro-stati sarebbe forse più incisiva se arrivasse da un cartello di potenza paragonabile alle antiche dinastie di petrolieri come i Rockefeller, i Nobel o i Rothschild. E’ all’epopea del Caspio, in Azerbaigian, che bisogna rifarsi per rintracciare una battaglia simile all’attuale dove s’intrecciano nuove tecnologie e risorse vergini in uno scacchiere globale. John D. Rockefeller, padrone dell’americana Standard Oil, spadroneggiava sul mercato e solo l’alleanza (europea) di comodo tra i fratelli Nobel svedesi, ingegneri, e spregiudicati petrolieri di Baku, e il ramo francese della casata dei Rothschild riuscì a rimetterlo in riga per un po’.

 

[**Video_box_2**]Insieme aprirono l’oleodotto Baku-Batumi, il primo verso l’Europa. Rockefeller reagì con campagne diffamatorie e, da quasi monopolista negli Usa, pilotò al ribasso i prezzi. La contromossa degli europei fu spiazzante. Col favore della corona britannica aprirono la rotta di Suez – cosa prima negata all’americano –, ergo i commerci con l’Asia nel 1890. Un’epopea mitica, quando l’acqua a Baku sapeva di petrolio e il gas in fiamme illuminava la superficie del Caspio.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.