Nasser bin Ali al Ansi nel video in cui rivendica la responsabilità dell'attentato a Parigi

Al Qaida in Yemen rivendica la strage a Parigi. Gli attentatori, i mentori, l'infermiere e il “muscolo”

Paola Peduzzi

Una “vendetta in nome del messaggero di Dio”, come dice nel video Nasser bin Ali al Ansi, leader della filiale yemenita del gruppo. Il mandante è il dottor Ayman al Zawahiri.

Milano. L’attentato a Charlie Hebdo, ribattezzato “la Battaglia benedetta di Parigi”, è stato rivendicato da al Qaida nella Penisola arabica: una “vendetta in nome del messaggero di Dio”, come dice nel video Nasser bin Ali al Ansi, leader della filiale yemenita del gruppo. Il mandante è il dottor Ayman al Zawahiri, capo di al Qaida, “rispettando la volontà di Osama bin Laden”, ormai defunto, “in coordinamento con il comandante Anwar al Awlaki”, anch’egli defunto, per opera di un drone statunitense. Gli “eroi” di Parigi sono i fratelli Kouachi, Chérif e Said Kouachi, gli attentatori che hanno decimato la redazione di Charlie Hebdo, e “con la benedizione di Allah, questa operazione ha coinciso con quella del fratello mujaheddin Amedy Coulibaly”, che ha preso e ammazzato ostaggi nell’épicerie ebraica a Parigi e che si è definito un membro dello Stato islamico, “un soldato del califfo”. Lotte intraislamiste a parte, “chiediamo a Allah di accoglierli tutti tra i martiri”, dice il leader di al Qaida in Yemen, prefigurando altri attentati nella Francia che non rispetta l’islam – il video si chiude con una Torre Eiffel in distruzione, ma c’è spazio prima per prendere in giro i leader che hanno partecipato alla marcia di Parigi: “Guardate a come si sono radunati, marciando e sostenendosi l’un l’altro, rafforzando le loro debolezze e indossando le loro ferite”.

 

La rivendicazione chiarisce nuovi elementi della formazione jihadista dei fratelli Kouachi, che si guadagnavano da vivere consegnando pizze, e del loro legame con Coulibaly, operaio in una fabbrica della Coca-Cola, rafforzando l’ipotesi che la formazione di questi ragazzi sia avvenuta sì nei campi di addestramento jihadisti tra Iraq e Golfo, ma che sia stata il frutto anche e soprattutto di una radicalizzazione avvenuta in terra francese, tra le collinette del parco Buttes-Chaumont, che sta nel XIX arrondissement parigino, e la prigione Fleury-Mérogis, dove gli attentatori si sono conosciuti (nelle conversazioni intercettate  fino a sei mesi fa, Coulibaly è chiamato “il piccolo nero” o “negro”). Questa cellula, che reclutava anche minorenni, per andare a combattere a Falluja nel 2005, gira attorno a personaggi noti del jihad europeo. L’ispiratore era Farid Benyettou, classe 1981, nato in Francia da una famiglia franco-algerina, che faceva il bidello quando la cellula del Diciannovesimo arrondissement prendeva corpo. Imam autodidatta, Benyettou fu espulso dalla moschea di Le Pré-Saint-Gervais nei primi anni Duemila, si trasferì nel XIX arrondissement per andare a uccidere gli americani in Iraq e per organizzare attacchi in Francia, “paese che non rispetta i musulmani”. Benyettou ha reclutato Boubaker al Hakim, eroe di riferimento della cellula parigina, il “muscolo” laddove Benyettou era la parola, l’uomo nel 2003 disse alla radio Rtl invitando tutti i musulmani ad andare in Iraq: “Sono pronto a combattere in prima linea. Sono pronto a farmi esplodere. Sono pronto a mettere la dinamite e ‘boom, boom!’. Uccideremo tutti gli americani. Siamo mujaheddin. Vogliamo la morte. Vogliamo il paradiso”. Nel 2005, quando l’operazione di reclutamento stava andando in porto, Benyettou e al Hakim furono fermati (grazie alle intercettazioni) e condannati rispettivamente a sei e sette anni di prigione. Poi hanno preso strade del tutto diverse: uscito di prigione, Benyettou ha studiato per diventare infermiere, mestiere che ha poi fatto, in un ospedale parigino, fino alla settimana scorsa, quando la sua internship è stata sospesa. Al Hakim è oggi un membro dello Stato islamico, si occupa del reclutamento di combattenti europei nell’Africa del nord.

 

[**Video_box_2**]Il mentore in carcere di Chérif Kouachi e di Coulibaly è stato Djamel Beghal, che rappresenta anche la connessione tra jihad francese e inglese: franco-algerino, nel 1997 Beghal si trasferisce a Leicester (sua moglie e i quattro figli vivono ancora lì): fa panini, lavora in una charity per i senza tetto, studia informatica e va spesso a Londra, per frequentare la moschea di Finsbury Park, dove diventa discepolo di due dei predicatori più radicali del paese, Abu Hamza e Abu Qatada. Nel 2010, Beghal è arrestato assieme a Chérif (sempre grazie alle intercettazioni) perché stava organizzando l’evasione dal carcere di Smaïn Aït Ali Belkacem, mitico membro del Gia algerino condannato all’ergastolo. Beghal conosceva bene anche Coulibaly, erano in prigione assieme, e soprattutto sua moglie, Hayat Boumeddiene, che ancora nel 2007 si mostrava in bikini su una spiaggia dominicana (“oggi non lo farei più”, ha detto nel 2010), nel 2009 ha sposato Coulibaly ma non era presente al suo stesso matrimonio, aveva mandato il padre in rappresentanza, e ora dovrebbe aver passato il confine turco (quel confine da cui ormai passa di tutto) per andare in Siria. Sua sorella, scrive il Telegraph, vive in Inghilterra.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi