Il giornalista e scrittore Martin Wolf

La nottata di Martin Wolf

Giuliano Ferrara

E' scrittore e giornalista al Financial Times (associate editor e chief economics commentator). E’ considerato da una vasta platea di personalità del pensiero economico (e non solo). Un tipo speciale che la pensa come noi ma risponde con la resa.

Chi è, prima di tutto. Martin Wolf, 68 anni, è scrittore e giornalista al Financial Times (associate editor e chief economics commentator). E’ considerato da una vasta platea di personalità del pensiero economico (e non solo) un enorme talento e il più connesso, serio, indipendente e perspicace osservatore di cose finanziarie (non solo) nel mondo della cosiddetta anglosfera. Non ha grandissimi titoli accademici, se non honoris causa, ma una solida formazione. Ebreo di discendenza austriaca e olandese, ha avuto una gioventù di funzionario della Banca mondiale, all’epoca di Robert McNamara, è passato per le idee liberiste di Hayek ed è stato un teorico e scrutatore di una globalizzazione che “ha funzionato”, ha poi affrontato la crisi finanziaria del 2008 impostando una sorta di Keynes renaissance e implicando i suoi commenti, con idee sempre vive anche se non tutte condivisibili, in un alto grado di penetrazione e interpretazione della realtà economica mondiale. Insomma, un tipo da leggere e da stare a sentire.

 

Che cosa ha scritto di importante Martin Wolf, dopo le stragi di Parigi. Ha scritto che non ha altra competenza per ragionarci sopra se non quella che gli deriva dall’essere cittadino di una democrazia d’occidente, uno che desidera fortemente mantenere questa qualità. E la sua argomentazione parte dalla lettura di un vecchio libro del 1951 scritto da un personaggio formidabile, Eric Hoffer (1898-1983), un americano del Bronx autodidatta che ha condotto una vita da favola, tra i dock di San Francisco dove lavorava al carico e scarico delle merci e una passione per lettura e scrittura che lo portò al successo editoriale e al riconoscimento pubblico (ebbe anche la Medal of freedom presidenziale come autore di dieci libri). Il libro ha titolo: Il vero credente: pensieri sulla natura dei movimenti di massa, è un saggio su nazismo e comunismo da un punto di vista laico e secolarizzato (occorre aggiungere che Hoffer era un “ateo devoto” ovvero un ateo che considerava positiva l’influenza delle religioni). Wolf estrae molto dalla sua lettura del libro di Hoffer, che in parte riespone nelle sue scoperte o tesi di fondo. Egli pensa che i fratelli Kouachi e Amédy Coulibaly erano, come lo sono i militanti di Al Qaeda, i Talebani, i membri del Califfato di Al Baghdadi e Boko Haram, dei veri credenti. Dunque dei fanatici pronti a dare la morte e a morire per un ideale, per una causa, per una comunità di vocazione e di destino, pronti ad agire spinti dalla frustrazione provocata da un mondo che non ha la giusta forma. Hoffer si è occupato anche delle religioni e dell’islam, ma il quadro delle sue analisi era specialmente condizionato dalla storia del Dopoguerra e dalle parabole del nazismo e del comunismo, la massificazione e irregimentazione di cause celebri, mortuarie o criminogene. 

 

Wolf traduce a oggi questo libro che ama e ne applica gli schemi analitici alla guerra santa dei combattenti islamici nell’assalto all’occidente o nel suo cuore. Dice qualcosa che deve essere sottolineata, e i lettori di questo giornale ne conoscono le ragioni già esposte: “Il nemico non è il terrorismo, ma l’idea di cui il terrorismo è il prodotto”. La religione radicalizzata avendo preso il posto del comunismo, del nazismo e in molti casi anche del secolarismo, diventato evanescente e fragile, l’attacco dei veri credenti di fede musulmana militante può essere controllato ma non può, scrive Wolf, essere respinto e sconfitto con la violenza e la guerra, come secondo lui dimostrano l’Iraq e l’Afghanistan. La realtà ha ucciso prima il nazismo e poi il comunismo. Ma uccidere religioni che promettono l’eternità è difficile. E’ difficile fare deterrenza verso gente che è pronta a morire. (Lo si è visto plasticamente nel video dello scontro a fuoco dalle parti di Charlie Hebdo, con una macchina nera militante che avanza sicura sparando e un’auto della polizia francese costretta a battere in ritirata a marcia indietro: la violenza incomparabilmente superiore era dalla parte dei militanti islamici.)

 

Che cosa propone Wolf. Propone il lungo gioco del containment. Il riconoscimento che il fuoco della battaglia è nell’islam, l’occidente può darsi da fare ma non può vincere. La frustrazione va combattuta con dosi massicce di riconoscimento multiculturale dell’eguaglianza tra diversi. La sicurezza assoluta è fuori della nostra portata. Non dobbiamo irregimentare le nostre società in un security state. Non dobbiamo overreact. Il XX secolo ha avuto nella democrazia la parte vittoriosa. Succederà di nuovo prima o poi (anche se Wolf nota di passata che occorsero centotrenta anni di guerre di religione dopo l’esplosione luterana). La nottata passerà.

 

[**Video_box_2**]Che cosa si può replicare, partendo dall’accordo sulla natura del conflitto (non è terrorismo ma guerra santa islamica) e dal disaccordo sui rimedi. Intanto il containment, progressivamente legato all’equilibrio nucleare e all’obbligo di tecniche di coesistenza pacifica tra mondo libero e comunismo, non fu una lunga fase di wait and see, fu la costruzione della Nato, fu la guerra di Corea e la successiva azione di nation building che dura ancora, fu la sfortunata epopea del Vietnam e mille altre cose che parlano di un mondo deciso a non causare una guerra frontale ma anche determinato a impedire, che era poi questo il containment, l’allargamento dell’influenza del comunismo sovietico nel mondo. In un certo senso, le guerre successive all’11 settembre, oggi divenute pretesto per le peggiori stupidità strategiche e storiografiche, furono parte di una strategia di containment. E furono interrotte, battute sul fronte domestico, dannate e sostituite da un neoisolazionismo obamiano travestito da strategia del dialogo e fondato sull’idea che basti, lo si è visto, una politica di attacchi mirati, con i droni, una sorta di polizia internazionale antiterrore. Infine la conferma dei princìpi sacri del multiculturalismo, la rinuncia a una aspirazione alla sicurezza “totale”, la conferma senza se e senza ma dei nostri valori: tutto questo, compresa la nottata che deve passare, sa più di Eduardo De Filippo e di Napoli milionaria che di anglosfera responsabile e pragmatica. L’Europa e l’occidente non possono negare agli altri il diritto a Dio (laïcité) né restaurare il loro Dio (desecolarizzazione, ricristianizzazione): però una risposta solidale di ragione e fede, di stati laici e identità non secolari, il programma di Ratisbona: è da pensarci.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.