Roma, bancarotta capitale

Ernesto Felli

Le indagini economiche sul fenomeno della corruzione e l’esempio romano. Due ordini di interrogativi. Il primo è se questo sistema poteva essere individuato prima. Il secondo è se ciò che è emerso fino a oggi può essere definito “mafia”.

L’emergere della fitta rete di corruzione a Roma, con agganci a personaggi provenienti dalla criminalità comune (se così si può dire, dato che anche la corruzione è criminalità comune), ha fatto sorgere due ordini di interrogativi. Il primo è se questo sistema di corruzione poteva essere individuato prima, e non solo dalla magistratura inquirente. Il secondo, alimentato su questo giornale, è se ciò che è emerso fino a oggi può essere definito “mafia”. Per rispondere a entrambi gli interrogativi si dovrebbe far ricorso agli elementi di base dell’analisi economica della corruzione, e non solo a categorie sociologiche in cui inquadrare i personaggi coinvolti, e neppure, crediamo, limitarsi al solo aspetto dimensionale degli episodi di corruzione individuati. Allora, può essere utile riandare a un paper scritto dagli autori di questo diario nel 1999 (“Productivity and Organized Crime in Italy”), nell’ambito di un progetto di ricerca guidato dal premio Nobel Edmund Phelps (“Some Impediments to Enterprise and Inclusion in the South: Organized Crime and Organized Labor”, Cnr - Progetto Strategico “L’Italia in Europa”, luglio 1999). Il paper analizza il mercato della corruzione nel caso in cui questo sia “regolato” da un’organizzazione criminale come la mafia. La particolarità di un tale mercato è che, dal lato della domanda, i corruttori non sono in competizione tra loro perché la criminalità organizzata è in grado di decidere chi è ammesso, tra le imprese private, a offrire al detentore del potere decisionale pubblico la “tangente”, e al tempo stesso, controlla l’altra parte del mercato, cioè chi vende al corruttore il proprio potere. Controllare entrambi i lati del mercato, la domanda e l’offerta, significa che il “regolatore” ha una capacità di far rispettare i patti collusivi attraverso una forza dissuasiva che, nel caso della mafia, si basa sulla violenza estrema.

 

Le conseguenze economiche di questa situazione, quantificate nel nostro paper anche attraverso uno spericolato esercizio econometrico, erano che la distorsione dei mercati legali operata dalla corruzione conduce a una perdita di produttività, perché sono impedite la concorrenza e l’innovazione. Si tratta di un risultato standard della letteratura sul tema. L’altra conclusione era che la mafia, operando come uno stato che tassa l’attività economica, è interessata a “regolare” in modo centralizzato la corruzione per evitare il soffocamento completo dell’attività tassata, nello stesso modo predetto dalla curva di Mundell-Laffer. Tuttavia, il nostro argomento era che questa limitazione era resa inutile dal fatto che i redditi “tassabili” dalla mafia nel mezzogiorno erano gonfiati esogenamente dai trasferimenti statali, rompendo quindi la relazione tra “base imponibile” e pressione dell’estorsione. La conseguenza di policy era la raccomandazione di un federalismo fiscale in grado di ripristinare questa relazione.

 

Sulla base di quest’analisi, al primo interrogativo si risponde guardando allo stato di dissesto fisico della capitale d’Italia e dei suoi servizi, più misurabile di quello morale. In altri termini, si tratta di capire che non conta quanto è stato rubato ma quanto il furto abbia impedito il funzionamento corretto delle attività sulle quali si è rubato (nel nostro paper accademico si stimavano gli effetti sulla produttività). Il che significa che vi sono indicatori utilizzabili per capire che qualcosa non funziona, e non solo nella gestione dei campi rom o nella raccolta dei rifiuti. Quanto alla conclusione del nostro “paper” a favore del federalismo, sembrerebbe sbagliata, vista la corruzione che proprio negli enti locali si è concentrata. Non lo crediamo, perché in Italia non abbiamo mai avuto alcun federalismo fiscale ma solo decentramento senza responsabilità. Tanto è vero che lo stato centrale ha periodicamente finanziato spese e debiti accumulati a livello locale, compresa Roma Capitale.

 

[**Video_box_2**]Ma veniamo al secondo interrogativo: si può parlare di mafia? A prima vista si potrebbe pensare di sì. Secondo il nostro modello di analisi, il sistema di corruzione di cui parlano i giornali, pur riguardando settori e affari che, per quel che è emerso fino a oggi, non sono tra i più rilevanti della capitale, mostrerebbe la presenza di una regolazione centralizzata del mercato della corruzione. Non abbiamo un sistema frazionato, seppur diffuso, d’imprese che tentano di corrompere in competizione tra loro, e neppure un sistema frazionato di detentori di poteri discrezionali che singolarmente si offrono sul mercato. In altri termini non c’era concorrenza. Tuttavia, l’organizzazione criminale regolatrice di questo mercato sembra fondarsi essenzialmente su una capacità collusiva di tipo politico. Sia le imprese corruttrici coinvolte sia i corrotti colludono illegalmente passando attraverso canali politici, seppur in modo illegale e quindi criminale. Ma fino a oggi manca il fattore decisivo: la violenza estrema, come “garanzia” del mantenimento del racket, che determina la specificità del sistema mafioso rispetto ad altre forme illegali di collusione che distorcono il mercato. Non si tratta tanto di una questione semantica, perché in gioco c’è la capacità di prescrivere efficaci e specifici strumenti di individuazione, prevenzione e contrasto.

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