Ponte Milvio

Lost in Roma nord. Questo è l'ombelico del mondo (di mezzo)

Redazione

Però, certo, se uno è ricchissimo, proprio qui, che viene a fare? Però lo stesso, attorno, quasi sempre salendo sopra, se imbocchi l’incrocio qui davanti via di Vigna Stelluti, c’è grande accasamento di vip: attori, registi, cantanti, giornalisti persino (per calare un po’ di categoria)

Roma. Mica è posto per romantici, Corso Francia. Per carità. Più giù, magari sì, casomai a Ponte Milvio, dove i pargoli de’ Romanord attaccavano lucchetti ai lampioni e ora sciamano vocianti, e dai coetanei (invidiosi!) concittadini dei restanti punti cardinali quasi all’unanimità considerati un po’ stronzetti (“cioè ggiura!”), sulle loro microcar. Come gli Step e le Babi, e le Niki e le Olly, e via via smozzicando e storpiando, le Ludo(viche) e i Pier(luigi) e i Gian(luca/carlo), come se il fiato mancasse, a memoria della saga mocciana (che poi, di pomiciata in pomiciata, quelli di allora avranno messo su famiglia – sempre, si capisce, in zona Vigna Clara). Ma a Corso Francia, ecco, chi potrebbe mai amoreggiare? Sotto la pioggia, tra le pozze d’acqua, i marciapiedi sotto le ruote di qualche Suv in seconda fila, la badante – a supposizione: moldava o ucraina o romena – (biondo lampeggiante il capello, robusti polpacci dentro stivaletti da campionario, orecchino d’oro e tondo) vociante al telefono che dall’altra parte dello stradone aspetta il 223 per tornare a Termini, di qua il filippino che butta l’immondizia nel cassonetto – con rapido successivo affluire di due zingari baffuti che si precipitano a frugare, spingendo casse sistemate su rugginosi scheletri di vecchi passeggini. “Qui gente butta buone cose”. (Perché l’annotazione non possa passare per stupidissimo razzismo politicamente incorretto, si cita dalla solida correttezza di Repubblica, nella prosa solidamente corretta di Concita De Gregorio: “Un luogo dove nessuno scende a piedi la sera. Un posto ricco, però. Ricchissimo. Di telecamere e magnolie nei giardini, centri estetici, banche e poi più niente, solo videocitofoni e domestiche straniere che vanno a buttare l’immondizia”). Immondizia – riecco. C’è del metodo, sicuro, della ripartizione, pure, per frugare nell’immondizia della capitale: meglio qui, certo – dove oggi la cronaca, e domani il mito di un “Romanzo criminale 2.0”, situa il regno “der Cecato” – che altrove, dove dalla monnezza solo altra monnezza si tira fuori. Lo stesso, il lavoro di scavo dissemina di sacchetti sventrati il marciapiede, che si sparpagliano nelle pozze d’acqua. Chi mai qui amoreggia, allora? Eppure, davanti al numero 150, c’è chi ardore e perenne passione ha inciso sul marciapiede e sul muro – e strappa almeno sorrisi e un po’ di stupore, come se fosse un murales di Banksy, pure se a un murales di Banksy per niente somiglia. “Ti aspetto tutta la vita”, è scritto a terra. E alzando gli occhi: “Sei tutto per me”. Step e Babi resistono e lottano!

 

Qui si sta a metà strada, verso la famosa pompa di benzina – che adesso ognuno conosce, che adesso ognuno si ferma a osservare, pure gli spatentati, pure i non automuniti. A metà strada di corso Francia, si capisce, a volerlo far cominciare, il corso, piuttosto che dal ponte di bianco travertino, che manco si vede girando lo sguardo – che fascisticamente al XXVIII ottobre di Gran Marcia era intitolato una volta, a gloria imperitura, ’n artra!, se da Moccia a Gadda impunemente s’ha da passare, del “primo Racimolatore e Fabulatore ed Ejettatore delle scemenze e delle enfatiche cazziate, quali ne sgrondarono giù di balcone per ventritré anni durante” – dal più appropriato McDonald’s, tornando indietro sotto lo svincolo della tangenziale, dove all’ora di pranzo s’affollano creature, in vasto e sconsiderato numero, da scuola sortite e non a casa per pranzo rientrate, urlanti tra hamburger e patate e salse colanti.

 

“Qua è zona de lazziali, se sa”

 

Allora, su questa strada vai, su questo Corso Francia di lustro cronachistico or ora rivestito, come ognun altro va – sbirro in incognito, televisionari con telecamere sulla groppa, cronisti di cartagiornale come se il Mekong tra i viet guadassero, servi e pupi con zaino e patentati tutti – a cercare la mitica pompa di benzina. Fino all’altro giorno, rassicuranti macchine della Finanza e dei Cc presidiavano lo slargo car wash/gommista, tettoia e gabbiotto (di vasta conformazione, a dir la verità), e i benzinari allertati – chi straniero, chi col berretto laziale (“qua è zona de lazziali, se sa”, spiega in seguito chi la zona conosce), il tubo di gomma come quieta biscia in mano, sanno ormai bene come l’assalto fronteggiare: “Non possiamo dichiarare nulla… Per gentilezza, si deve accomodare fuori… Scusi, siamo operativi… si allontani…”. Che poi, da vedere, se uno viene apposta per vedere, c’è ben poco – avendo, i validi sbirri intercettatori, nel caso e nella necessità, visto e registrato il meglio e il necessario, così che, folla di clienti a parte che alla pompa di benzina l’essenziale e il dovuto richiede (un’occhiata all’olio, ’na gonfiatina alle gomme, dotto’?, un pieno pe’ sta’ tranquilli), altro da annotare non c’è: più o meno (meno, però), come osservare la desolante solitaria immagine di quel famoso quadro di Hopper, “Gas”. Oltre la siepe tra la strada e il piazzale, in una sorta di enclave chiusa dentro la salita ardita di via Giuseppe Pecchio, palazzoni gialli e grigi intorno a far da corona, la gente guarda, e guardano allora pure i benzinai – un po’ surreale situazione.

 

Come il birillo del biliardo di Foligno, è questa pompa di benzina il centro del centro di Corso Francia – appena oltre, lo svincolo che porta là dove Roma a Roma somiglia poco: Tomba di Nerone, via Cassia; Saxa Rubra (concentrazione Rai). Le fermate degli autobus indicano posti che ancora in là si spingono: Grottarossa, Giustiniana, Prima Porta (con annesso cimitero). Posto ricco, anzi ricchissimo: così, i giornali. Sarà. Di sicuro è (attestazione di Repubblica). Però, certo, se uno è ricchissimo, proprio qui, che viene a fare? Però lo stesso, attorno, quasi sempre salendo sopra, se imbocchi l’incrocio qui davanti via di Vigna Stelluti, c’è gran accasamento di vip: attori, registi, cantanti, giornalisti persino (per calare un po’ dalla categoria vip). Vigna Clara – di riti e negozi e bionde signore dall’aspetto danaroso – che dall’alto osserva. Corso Francia, a scrutarla bene, sembra Genova, ma senza il mare (e per sua fortuna senza il torrente Polcevera): ai lati della strada, i palazzi è come se fossero aggrappati, innalzati, in un groviglio di scale e scalette per salire e scender e che, come fu scritto, portano su “alle navi da crociera terrazzate, gli edifici di via Tiberio” – e banche e saloni di slot e, appunto, centri estetici, studi notarili e/o studi di avvocati, bar con tavolini e grandi parate di vasi vermigli di stelle di Natale a marcare il confine, proprio dall’altra parte della strada uno scampato Blockbuster: come una volta ce n’erano tanti, e adesso quasi non si vedono più.

 

[**Video_box_2**]Il negozio (chiuso) della moglie di Carminati

 

Subito dopo il ponte della tangenziale, una scritta sbiadita sul muro ricorda che lì si trovava “Anema e cozze”, ora serrato, fortunatamente poco oltre è presente una rassicurante “Piadineria artigianale”. Pieno di cartelli “Affittasi” o “Vendesi”, una scritta consola e invoglia, “Non solo case élite”, senza stratosferico conto in banca, ma c’è pure la vecchia fruttivendola dall’aria simpatica col chioschetto – proprio là, a lato della famosa pompa di benzina – e la rivendita di uova dall’aria fresche e ciliegie (a Natale? Ebbene, sì) a tre euro al chilo. Poco oltre, indugiano, le telecamere (e subito dopo, ovviamente, gli sguardi), su una piccola costruzione color violaceo, come se fosse legno di chalet: era il negozio della moglie di Carminati, dicono, negozio di jeans, ormai da anni chiuso, e chiede conferma e dettaglio ai vicini negozianti il collega telecamerato, sulla presenza in loco dello stesso, e così, proprio così, “dicevano, ma sempre per sentito dire, che era uno della banda, ma come persona era educata”.

 

Corso Francia è una lunga e larga lama, che dai Parioli o dal mussoliniano Foro o dal mesto ripiegamento del Villaggio olimpico taglia verso il nord, verso la consolante Tuscia, il civile viterbese. Anni fa, la scrittrice Letizia Muratori fece per Repubblica un ampio reportage sulla strada. “Corso Francia non rivela un quartiere. E’ una strada piatta in mezzo alle salite e taglia un mondo contiguo e polimorfo. Vecchio borghetto alle porte di Roma, residenze alto e medio borghesi, qualche scempio urbanistico da sacco capitolino… E’ tutto ripulito, tutto tirato a lucido. E’ il paradiso dei single e delle giovani coppie bobochic, dicono” – qualunque cosa significhi, pure adesso, pure adesso che i cassonetti a volte eruttano piuttosto che ingoiare. Elaborò una teoria, la scrittrice, che a una prima occhiata sembra ancora valida: a Corso Francia è tutto piccolo o tutto grande, mica zona da vie di mezzo. Le macchine, spiegava, o Smart o microcar o Suv; i cani o grossi o da borsetta, piccoli incantevoli palazzetti di “barocchetto romano” e palazzoni che chiudono lo sguardo. Di notevole (quasi) mai niente – pur se ci fu, tra i locali della zona, si rammenta, un’avanguardia che in anni ormai lontani pose la ristorazione italiana al livello di pizza con la Nutella e pure pizza con mais e panna. Ma ancora strade, lì intorno, dove si potevano ammirare, il “mezzo chilometro di Piccola Svizzera” superato, “scope di saggina, relitti di bici e motorini abbandonati, serrande che crollano, panni stesi. Resti di orti”. Chissà se qualcosa è rimasto – di quel piccolo mondo, nascosto dietro lo stradone di smisurata confusione, di clacson in attività, di alberi di Natale che luccicano in alto, sulla sommità dei palazzoni che tutto osservano: pompe di benzina, signore col canino, zingari che frugano, gente seduta al bar, quello (chissà chi) che per tutta la vita, al civico 150, promette di aspettare.

 

E’ da Corso Francia che si dirama – salendo, avanzando, svoltando – l’epica della Roma nord, o Romanord, tutto attaccato, come se fosse città a parte, ville e piscine e quartieri molto residenziali, con qualche spolverata, qua e là, in zone limitrofe e al controllo sfuggite, inerpicate sulla collina della Cassia in grandi palazzoni grigi (“zona che per il mondo trans della capitale è come un marchio di appartenenza”, fu scritto) di perseveranza degli/delle stessi/ stesse con affezionata clientela. Zona politicamente di destra – de’ fasci, dicevano i più allertati militanti di sinistra: così, forse, ora nemmeno più.

 

Da una vecchia foto del ’59 del viadotto di Corso Francia, a parte il nuovo e lustro Villaggio olimpico, viene fuori una sensazione di solitudine, isolamento, di spazi ancora vuoti, persino poche macchine che si possono addirittura contare sulle dita di una mano – giusto un paio di gruppetti di pini romani, sul lato sinistro, animano questa immagine quasi metafisica. Di quegli spazi (e di quel sicuro silenzio) oggi quasi non c’è più traccia. E infatti il traffico è decisamente aumentato, così che servirono pure le pompe di benzina – là a corso Francia, Romanord, verso la Cassia.

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