Marco Pannella durante la manifestazione dei Radicali Italiani su giustizia e carcere del febbraio scorso © Photo Roberto Monaldo / LaPresse

Infanzia di un vecchio

Marianna Rizzini

Sono le nove del mattino di un giorno qualsiasi (martedì), e ad accendere Radio Radicale quasi quasi non ci si crede: Marco Pannella, forse dal vivo forse in replica (poi si scoprirà che era un’intervista del giorno prima a Skytg24) sta parlando di vulcani.

“Ma che strano sogno / di un vulcano e una città / gente che ballava sopra un’isola… / la lava incandescente / cremava gli hulahop / l’uragano travolgeva i bungalow… / Noi stavamo lì / dimmi dimmi / non ti senti come al cinema…” (“Tropicana, Gruppo italiano, 1983).

 

Sono le nove del mattino di un giorno qualsiasi (martedì), e ad accendere Radio Radicale quasi quasi non ci si crede: Marco Pannella, forse dal vivo forse in replica (poi si scoprirà che era un’intervista del giorno prima a Skytg24) sta parlando di vulcani. Non in senso metaforico: vulcani veri e nuove Pompei e Campi Flegrei e quel Vesuvio che se ne sta lì acquattato, zitto zitto, con tutte le sue luminarie e le sue case e le sue strade sopra, ma tu non sai fino a quando se ne starà buono e calmo, “caro presidente Napolitano-napoletano” (dice proprio così, Pannella, con voce che sorride, più che rimproverare). “L’ha detto la scienza” – succederà, l’eruzione ci sarà, chissà quando ma è una certezza – e travolgerà tutto e tutti, e tu presidente non puoi mollare ora, e non solo perché nel panorama politico italiano “le tue dimissioni ora costituirebbero un elemento di casino che nel lessico attuale è sinonimo di cesso”, proprio così dice Pannella e lo ripete sapendo di far sobbalzare l’ascoltatore. “Preside’, resta dove sei”, dice a Napolitano, e per “una questione tecnica”, importante, persino urgente: la prossima ventura spaventosa eruzione del Vesuvio. Si apprende en passant che i Radicali hanno fatto ricorso a qualche organismo internazionale, ma non per il “casino-cesso” partitocratico e politico di cui parla Pannella ma per il vulcano dormiente che incombe su Napoli: le amministrazioni e le istituzioni italiane sono o no colpevoli di non aver fatto istruire all’emergenza i bimbi delle scuole?, è il quesito, ma non si riesce ad ascoltare nel dettaglio perché è troppo forte il richiamo immaginifico di quella lava che scende e pietrifica – “tre milioni di indigeni inceneriti in venti ore”, e non è l’ultimo film catastrofista, è sempre lui, Pannella, e nella mente del radioascoltatore si affaccia all’improvviso un motivetto, la famosa canzone anni Ottanta, quella del vulcano e della città e della gente che balla a San José, con Radio Cuba che urla “fuori dai caffè”. Sono solo le nove del mattino e Pannella, oltre a suscitare assurde associazioni mentali, pare un Pannella al cubo: più solenne, ma pure più allegro, più folletto dispettoso che gigante sputafuoco, nonostante l’argomento. Sta dicendo cose che ha già detto (il Vesuvio in sonno s’era già sentito, in qualche rassegna radicale), ma diverso è lui. Come se, nel bel mezzo del cammin verso i novant’anni (ne ha 84), fosse venuto fuori tutto il divertimento folle e il capriccio e addirittura un’inusitata tenerezza, ma bisbetica. “Per reggere gli attacchi della notte, ci vuole carattere”, scriveva James Hillman in “La forza del carattere”, formidabile manifesto per la vecchiaia da leggere da giovani. “La senilità non è una dannazione”, scriveva, “ma la condizione naturale affinché il carattere si confermi e si compia”, è “un’idea terapeutica”. Abbandonarsi ai sintomi dell’età che avanza, vedere l’acciacco come possibilità di delegare, e considerare i risvegli all’alba, con il buio, come possibilità di confronto con pensieri destrutturati, incubo e rivelazione al tempo stesso. “Ritirarsi dagli avamposti”, scriveva Hillman, ritirarsi per aggredire la realtà con la fantasia che soccorre quando la memoria latita e con la rabbia non permalosa da anziano che “è come i sette nani tutti insieme”: scontroso, coccolone, ironico, irrazionale, appisolato, saggio, intuitivo. Un “antenato” che parla del passato e confonde i nomi dei parenti per “connettersi alle sue radici”, immortale di per sé, liberato dall’ammutinamento delle forze fisiche che non sono più forti come prima, “seguace di Dioniso” per via del “miglioramento della percezione della vita”. Era l’idea di Hillman, e chissà se Pannella l’ha letto. Ma nella sua infanzia di vecchio fa cose che non faceva, come parlare in radio del mai nominato padre (di solito era la madre svizzera la protagonista degli amarcord): padre volontario nella Grande guerra, ingegnere al Politecnico di Torino, fascista in gioventù ma anche impegnato in duelli con neofascisti universitari.

 

Non è solenne, Pannella, oggi, come alla classica marcia di Natale (o di Pasqua) per i diritti dei detenuti e per l’amnistia, presenti tutti i radicali e tutti i giornalisti di turno festivo, di solito sotto la pioggia ma in compagnia di musica dal vivo e retrò (su camion aperto, suonata dalla “Carlo Loffredo Roman New Orleans jazz band”, musicisti provenienti dall’età della Dolce Vita e forse dal Dopoguerra, ancora arzillissimi). Ma se non è solenne, Pannella ora pare liberato da se stesso, quando spiffera, quasi bisbigliando, ma forse neanche del tutto credendoci, la rivelazione e “notizia” definitiva che “neanche un cane di giornale” ha degnato di uno sguardo: ecco nel suo monologo comparire Emma Bonino, la Emma che “non ha fiatato” per “rispetto”, oggetto di “ricatto” di “quello” (Matteo Renzi), l’uomo che a suo tempo ha chiesto al Colle la “testa” dell’ex ministro degli Esteri, poco prima di “accettare l’incarico”. Ma perché di Bonino non si parla più così tanto nel toto-presidente del futuro?, si chiede poi impertinente Pannella, e nell’illusione acustica pare impertinente pure verso l’ex ministro non incensato a dovere,  “stimata mondialmente”, ma rimasta con nulla in mano per via della sua “popolarità” che oscura Renzi (vabbè). Alla luce del congresso radicale in cui Bonino neppure si è presentata, due settimane fa, e alla luce della recente latitanza di Bonino in quel di Torre Argentina, come raccontano in Torre Argentina, quel “perché non si parla più di Emma Bonino” diventa enigma, complice la voce del Pannella che si toglie ogni soddisfazione. E non solo in casa, ma pure a Verona, al convegno sulle unioni gay, quando, immortalato dalle telecamere di Radio Radicale, dice che lui non la vorrebbe chiamare certo “matrimonio”, l’unione tra persone dello stesso sesso, ma “andare oltre” e chiamarla proprio e soltanto “unione”: “gli uniti”, non i “coniugi”, dice spiazzando il sindaco leghista Flavio Tosi e vari esponenti di Scienza e Vita, e partendo per un volo oratorio che lambisce i diritti Lgbt ma anche Isaia, i profeti, le profezie, l’Immacolata concezione (il pubblico cattolico rumoreggia in sala e Pannella si lancia in uno spericolato paragone tra maschi “uterini” e maschi “femministi”). Anziano-bambino che vuole vedere l’effetto che fa (della serie “tiè, beccati questa”), si sporge in avanti e allunga il collo che sostiene una camicia troppo larga e una cravatta verde, forse un omaggio all’ospite leghista forse un’ultima rimanenza della casa francese di cravatte cui Pannella è estremamente affezionato (nonostante non sia più distribuita a Roma e nonostante possa ormai trovarla soltanto nei negozi aeroportuali dei più sperduti scali africani).

 

“Nuovo” in qualche modo deve sentirsi, il vecchio leone radicale con coda di cavallo sempre più bianca e giacca sempre più larga, ché mette anche due doppiopetti uno sopra l’altro, Pannella, ormai, tanto lo scioperare per la fame e per la sete, sedimentato negli anni, ha portato la taglia a meno sette-otto taglie dall’originale 58 dei suoi capi di buona fattura che non conoscono stagioni: estivi d’inverno, invernali d’estate, jeans con il risvolto in qualsiasi occasione, camperos che da vicino sembrano altro, forse più stivali da pioggia, forse più stivali modaioli, ma di una moda già decaduta, eppure dello stesso identico colore del mocassino gigante con cui Pannella spesso si aggira alla fermata dei taxi, con una radio transistor incollata all’orecchio, e con in mano non più la busta di plastica del supermercato con cui si presentava ai congressi all’Hotel Ergife, oggi sostituita dalla borsa di tela dove mette tutto l’occorrente: l’immancabile Monde, i sigari, una penna, foglietti, briciole. (I tassisti, cerberi con chiunque, gli concedono, come dice lui, di “improfumare la macchina” con i suddetti sigari).

 

[**Video_box_2**]E insomma: sono le nove del mattino e si percepisce che al Pannella che parla in differita da intervista a Sky “quel Renzi” continua a non piacere, per ragioni contrarie a quelle per cui Renzi piace a molti. “Quello c’ha trentott’anni e deve impara’ ancora un mucchio di cose dalla vita”, dice a chi gli ha appena chiesto: “Ma possibile che l’Italia debba ancora aggrapparsi a un uomo di novant’anni?”, ovvero a Giorgio Napolitano, ma non c’è niente da fare. Per Pannella vale l’opposto: “Come si fa ad affidarsi a uno de’ trenta?”, dice, forse pensando più a casa sua che a casa degli altri: all’ultimo congresso di Chianciano il leader radicale non voleva votare i tre emendamenti dell’area “riformista” (e trenta-quarantenne), emendamenti che chiedono al partito di adottare come parte integrante della sua strategia politica “l’uso dei referendum e leggi di iniziativa popolare”, strumenti per contrastare il “capitalismo inquinato” all’italiana e “trattare come prioritaria l’istituzione degli Stati Uniti d’Europa in senso federale”. Operazione, questa, non allineata con la linea del segretario rieletto di Radicali italiani Rita Bernardini (il tesoriere è Valerio Federico, il presidente Riccardo Magi). Dopo due giorni di discussione anche notturna, gli emendamenti a firma Massimiliano Iervolino, Valerio Federico e Marco Cappato sono passati. E Pannella?, si sono chiesti gli attivisti, già stupiti dal vedere che a Chianciano, sede storica quanto straniante di congressi radicali, Pannella, che di solito ai congressi non c’è ma c’è, nel senso che sta fuori dalla sala a fumare, ascoltando gli interventi in radio, era molto più presente che in passato. Ma il giorno successivo, durante la conversazione radiofonica con Valter Vecellio, partiva il marameo: “Ti hanno incollato per settimane, mesi e anni l’immagine del Dio Crono che mangia i suoi figli. Ora sono i figli che mangiano il Dio Crono?”, gli chiedeva Vecellio. “Ma quando mangiano, lo digeriscono?”, rispondeva Pannella, sardonico ma in fondo affettuoso, ché i figli per ora non l’hanno mangiato, neanche quando avrebbero potuto e nemmeno quando gli osservatori esterni consigliavano maliziosi:  “Se lo fate, sai i titoli di giornale!”. Magari non lo mangeranno mai, il maestro che ti fa incazzare dalla mattina alla sera ma al momento di ribellarsi come si fa, ci vorrebbe gente più spregiudicata, rottamatori efferati e adatti ai tempi, gente con la faccia nuova, scalatori senza retropensiero. “Potevamo essere l’opposizione non grillina”, dicono sospirando i simpatizzanti alla lontana, quelli che non sono addentro alle dinamiche di Torre Argentina, presi dal rimpianto per le occasioni perse. Ma non può essere in nessun caso un “Pannella blues”, ché Pannella non è malinconico per niente, anzi. Grillini o non grillini, Renzi o non Renzi, vede altre storie, altri regimi, le carceri da sistemare, l’Africa, l’America, il Tibet e la Cambogia dove si reca con il loden anche a 40 gradi, se a Roma è inverno. Tuttavia si concede licenze mnemoniche quando si tratta di rievocare il nome di Gianroberto Casaleggio – “com’è che si chiama, quello?”. Volevano essere opposizione visibile, i Radicali, e però è dura, adesso: dagli inferi bisogna risalire, con operazione da sommergibile, per riemergere dai flutti chissà dove e chissà quando, al momento inabissati nella eterna “situation room” di Torre Argentina (riunioni interminabili, con collegamenti nazionali e internazionali con micro-cellule sparse sul territorio). Tempi difficili, scomparsa dai radar, condizioni di “non democrazia”, ha detto da segretario confermato Rita Bernardini, ma intanto Emma Bonino, che prima di diventare ministro degli Esteri era la radicale più visibile a parte Pannella, continua a non farsi  vedere al partito. E hai voglia a riesumare la storia che lei è più possibilista con i vari governi e lui, Pannella, preferisce dirne peste e corna, e che si spartiscono i ruoli. I radicali storici, come di fronte al baratro, ricordano quando Pannella scucì promesse, e risorse, a Silvio Berlusconi, altri radicali storici ricordano quando trattò a brutto muso con Walter Veltroni – e fu “l’inizio della fine”, dicono sconsolati sia nel primo sia nel secondo caso, ché il passato sembra sempre foriero di rovina, a guardarlo dall’oggi, e alla fine gli uni e gli altri sono convinti che bisognasse salvare la Rosa nel Pugno, e comunque se è fallita la colpa è dei socialisti.

 

Sia come sia, tutto si confonde nel fumo preventivo da vulcano che sta per esplodere, e non si sa se è davvero il Vesuvio o Pannella in persona che sta per spararne una più grossa. Meno Emma Bonino compare alle riunioni, più lui la chiama in causa, paternalista ma punzecchiante: “Non ha fiatato”, Emma, contro “quella cosa sconcia” fatta dall’uomo (sempre Renzi) “che ci tocca sentire dodici ore al giorno anche quando facciamo pupù”, dice a Skytg24, sbalordendo i borghesi e soprattutto gli intervistatori. Ma poi, in quella che dovrebbe essere la sua indignazione, si inserisce una vena lirica: Napolitano ha “ceduto”, “ma avrei ceduto pure io”, dice, alludendo a tutta quella roba “di spread e morti di fame” che s’affacciava all’orizzonte, e quel Quirinale, quell’“amico Giorgio” novantenne, viene ora da Pannella coccolato (tanto quanto prima, negli anni, rimproverato). Non dimetterti, gli dice ora (“se hai bisogno di me per riflettere prima di decidere, io corro”), affettuoso forse anche per via degli appelli quirinalizi sul tema affollamento-carceri, comprensivo oggi quanto prima intento a spronare Napolitano a fare quello che, secondo Pannella, Napolitano non faceva per sconfiggere la “partitocrazia” e il “regime”, come ripeteva allo sfinimento il leader radicale all’indomani delle varie campagne con stella-gialla appuntata sulla giacca di ogni esponente di Torre Argentina visibile sugli schermi – visibile ma sempre troppo poco, diceva Pannella durante le sue conversazioni radiofoniche della domenica, quelle in cui litigava per impuntatura con Massimo Bordin, dandogli velatamente di “dalemiano”. Ma oggi, complice la liberazione del carattere, dopo innumerevoli digiuni, dopo la telefonata con Papa Francesco (per Pannella un compagno radicale) e dopo aver accostato la lotta antiproibizionista a precedenti illustri (“è l’ora davvero che noi americani torniamo a discutere dei nostri problemi della vita e della morte attorno a un bel boccale di birra”, dice Pannella citando a braccio Roosevelt), dalle liti con Bordin si è passati ai pazienti “eh” detti da Bordin con simpatia rassegnata, solitamente quando Pannella demolisce la presidenza di Barack Obama, “mediocre” e troppo poco liberale per lui ma non per Bordin (ex trotzkista, indiano metropolitano, radicale dalla giovanissima età).

 

E il Vesuvio è ancora niente. Riaccendi la radio e Pannella dice di aver “trovato simpatico che un migliaio di persone o giù di lì siano andate a una cena di finanziamento democratico, pagando mille euro. Io sono felice che il Pd prenda queste abitudini un po’ di stampo radicale, ponendo il problema dell’autofinanziamento. Ma vorrei appunto dire che probabilmente coloro che sono andati, senz’altro hanno fatto benissimo e li ringrazio come se l’avessero fatto con noi, ma… Piove sul bagnato! Siccome per la maggior parte di quelli che hanno dato i mille euro magari non era un grave sacrificio per la propria famiglia, so che lo avreste fatto pure più volentieri per consentire ancora il protrarsi della vita e della storia radicale nelle condizioni date”. E nella pura infanzia di vecchio lontano dal modello “hollow man” (“inutile e vuoto”, scriveva Hillman citando Thomas S. Eliot), dice con pernacchia “tacci vostra”: “Tacci vostra”, Renzi e B., che usate “quel nome, ‘Nazareno’”, per dare “sacertà” al tutto (al patto?), e vagli a spiegare, o a ricordare, che quella è davvero la denominazione topografica.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.